Flavia Spasari indaga le potenzialità della pratica artistica attraverso la ricerca intermediale. Privilegiando la fluidità rispetto alla categorizzazione delle forme d’arte, Spasari conduce la sua ricerca in maniera consapevole, nonostante la giovane età.
Flavia Spasari, nata in Calabria nel 2000, si è laureata all’Accademia di Belle Arti di Carrara in arti visive e scultura e attualmente segue il corso magistrale di Arti Visive allo IUAV di Venezia. Il suo interesse per il regno del sensibile si registra nella fluidità della sua pratica artistica. Dal suono alla messa in scena, Spasari tocca temi personali che si aprono ad affondi critici ben orchestrati.
INTERVISTA A FLAVIA SPASARI
Quale nome daresti alla tua pratica artistica?
È grazie a questa domanda che sono arrivata al superamento di un solo medium nella mia pratica. Ho abbracciato altri linguaggi, tra cui a ora il suono è il più identificativo. Mi sono approcciata a esso in maniera sperimentale, chiedendomi in quale altro modo potessi raggiungere la fisicità di un materiale. Inoltre attraverso il suono potevo cercare di indagare svariati livelli della realtà, soprattutto quello che tra essi non si comprende, ed è questa inaccessibilità a guidarmi. Il modello da emulare è per me quello dei bambini che uniscono più pezzi di plastilina possibili: la realtà è un pezzo di plastilina.
La ricerca per te è cardine nella tua pratica?
Parto sempre da una ricerca teorica, dalla quale mi lascio guidare lasciando a lei la scelta del medium. La parte visiva e quella sonora completano la teoricità della precedente analisi restituendone il senso finale. Il mio modo di fare ricerca è il mio modo di capirmi.
Guardando all’ opera fix it till you make it, esposta in occasione della mostra veneziana Overlapping Heads a Palazzetto Tito, hai dato voce alla patina “sottile” dell’antimeriodionalismo in Italia. È un’opera che veicola una chiara posizione, fai spesso scelte politiche per le tue opere?
Quando ho iniziato a lavorare con il suono è arrivata anche questa componente più sociale, divenendo strumento antropologico. Nelle mie ricerche è stato fondante Leandro Pisano, il quale afferma che il suono ha una verticalità tale da permettergli di penetrare la realtà riuscendo a eviscerare i livelli del sensibile. Recentemente il suono è divenuto modalità di scoperta, coadiuvato da studi decoloniali, del mio antimeridionalismo interiorizzato. Dall’ascolto dell’accento di mia sorella mi sono resa conto del fatto che stessi perdendo anch’io il mio, rifiutando una parte della mia identità. Lo trovo un lavoro politico, soprattutto per l’introspezione conscia che la dimensione sonora riesce a farci raggiungere. Da questo momento di analisi in poi ho iniziato a introdurre parti della mia cultura sia nella mia pratica compositiva che performativa, inserendo file recording di canti popolari calabresi. Una cultura che ho sistematicamente rinnegato, perché considerata portatrice dei tratti atavici descritti da Lombroso. Usare questi materiali sonori è un modo per penetrare nella società in una maniera più funzionale.
IL RUOLO DI VENEZIA PER FLAVIA SPASARI
La città di Venezia ti sta fornendo impulsi creativi e particolari spunti di riflessione?
Ho provato un grosso senso di sfiducia verso me stessa e il mondo dell’arte, Venezia come città mi ha aiutato a fare un reset. Sono passata dalla fase dell’innamoramento per l’arte a una fase più disillusa simile a quella che si vive nei confronti dei propri genitori quando si cresce. Li vedi per quelli che sono, cioè delle persone con i loro difetti. Ma, attraverso laboratori come quello del professor Filippo Maggia, ho avuto la possibilità di riscoprire un approccio teorico alla mia pratica che mi ha aiutato moltissimo. Penso che molti come me siano approdati allo IUAV proprio per un grande senso di sconforto verso il sistema accademico. C’è una forte crisi dell’arte in Italia e di questo ovviamente risente tutto l’apparato didattico. L’unica nota positiva è che, nel decadentismo, le regole e le strutture sono private del loro senso e si può effettivamente creare ciò che si vuole. Ma consiglierei a chi vuole intraprendere il cammino artistico di farlo nonostante tutte le avversità, perché io ci sto provando e, anche se cercassi di fare altro, tornerei sempre qui.
Quale insegnamento hai tratto da questo momento di crisi e riscoperta?
Ne ho tratto che il momento di presa di coscienza può coincidere con un momento felice. Vivi le cose con consapevolezza, sai che ti farai le ossa per affrontare la realtà e che l’accettazione è il fulcro. Mi ha aiutato tanto stare in un ambiente in cui le persone credono fervidamente nell’arte, in cui ci si sporca le mani e senti di poter contare su una visione collettiva.
Che rapporto hai con la figura del curatore?
Non è facile definire cosa sia o meno un curatore, infatti per farlo penso al rapporto con il curatore Marco Augusto Basso. Per la mostra Tre Canti a Spazio TORRSO a Pesaro, in maniera molto autoriale Basso ha curato e commentato l’esposizione attraverso degli assemblage. Abbiamo fatto una sorta di residenza in galleria e, con gli oggetti preesistenti in archivio, abbiamo dato vita alla mostra. Questo è per me sintomo di un vero rapporto curatore-artista, dove i confini esistono e si riscrivono.
Maria Rosaria Santosuosso




