Ironia, cultura pop e celebrità. L’artista Esther Gamsu si racconta 

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In occasione dell’apertura della mostra “Slow Manifesto” presso la Galleria A plus A di Venezia, a cura dei partecipanti della 32esima edizione del Corso in Pratiche Curatoriali e Arti Contemporanee della School for Curatorial Studies Venice, abbiamo intervistato Esther Gamsu, una delle artiste presenti in mostra. 

Conclusasi il 15 luglio 2025, la mostra Slow Manifesto alla Galleria A plus A di Venezia ha esplorato il tema del desiderio grazie a opere capaci di mettere in discussione i confini tra autenticità e manipolazione. In un mondo saturo di stimoli, la mostra invitava i visitatori a rallentare e riflettere come atto rivoluzionario, sottraendosi al giogo dei condizionamenti esterni e recuperando il diritto a coltivare un desiderio autentico. 
In questo contesto si è inserito il lavoro di Esther Gamsu (Sheffield, 1995), che indaga la costruzione dell’identità attraverso la cultura che consumiamo e, in particolare, attraverso le figure pubbliche che popolano l’immaginario collettivo. Ricorrendo a una pratica ironica e stratificata, l’artista decostruisce miti pop, ricordi d’infanzia e riferimenti mediali, restituendo nuove letture portatrici di consapevolezza. A Venezia ha presentato Bugsy Malone, un’opera che esplora, appunto, la costruzione dell’identità e l’influenza pervasiva delle immagini della celebrità, filtrate attraverso l’umorismo e la reinvenzione personale. 

L’INTERVISTA A ESTHER GAMSU 

Il tuo lavoro è spesso caratterizzato dall’umorismo. È una scelta consapevole o nasce spontaneamente dal tuo modo di osservare il mondo?  
L’umorismo è una componente fondamentale, sia nella mia vita quotidiana sia nella mia pratica artistica. Mi interessa come lo utilizziamo per relazionarci con gli altri, per proteggerci o affrontare situazioni difficili. Nei miei lavori, l’umorismo è uno strumento per avvicinarsi a temi complessi come la vergogna, per elaborare ricordi delicati e creare connessione con il pubblico. È un modo per aprire spazi, creare empatia e abbattere barriere. 

Come scegli gli elementi che compongono le tue opere? Attingi spesso da riferimenti personali e collettivi, da miti pop a paure infantili.  
Mi interessa il modo in cui la nostra identità si costruisce attraverso ciò che consumiamo. Spesso lavoro “a ritroso”, cercando di riprendere e rielaborare frammenti di cultura pop che mi hanno formata. Gli oggetti e le immagini che uso non sono sempre scelte consapevoli: si tratta spesso di materiali che mi accompagnano da tempo e che suscitano in me un senso istintivo di appartenenza. 

Molti dei tuoi lavori reinterpretano film e musical famosi. Si tratta di un omaggio, di una decostruzione o di qualcos’altro?  
Per me la reinterpretazione è un modo di diventare qualcosa o qualcun altro. Ho iniziato da adolescente, rifacendo musical famosi nella mia camera, davanti a un green screen, interpretando tutti i personaggi. Ero una persona timida e introversa, ma questi video mi davano la possibilità di esplorare altre identità. Sono certamente un omaggio, ma anche un modo per trasformare materiali esistenti in qualcosa di nuovo, personale. 

I TEMI DELLA RICERCA ARTISTICA DI ESTHER GAMSU 

La figura della celebrità ha un ruolo centrale nel tuo immaginario. Che rapporto hai con il mito della fama?  
Sono cresciuta nei primi anni 2000, quando la cultura delle celebrità era al suo apice: reality show, riviste di gossip, TMZ. Alcuni dei miei ricordi d’infanzia più nitidi sono legati a eventi di cultura pop – Britney che si rade i capelli, la morte di Michael Jackson. In un certo senso, questi episodi sono parte integrante della mia memoria personale. 

Viviamo in un’epoca in cui tutto può diventare un meme o una parodia. Come distingui il tuo lavoro dalla satira digitale?  
Il mio approccio parte sempre da una posizione di affetto. Sono una fan della cultura che utilizzo e riattivo nei miei lavori, attraverso l’appropriazione e la reinterpretazione. Non c’è mai l’intento di ridicolizzare. Mi interessa vedere cosa succede quando trattiamo la “cultura bassa” con la stessa serietà che riserviamo a quella “alta”. 

Nei tuoi lavori utilizzi spesso materiali di recupero e tecniche low-fi come la cartapesta o il lavoro a maglia. C’è un’intenzione politica o concettuale alla base di questa scelta?
La scelta è duplice: da un lato è dettata dal budget limitato ‒ lavoro con ciò che posso permettermi, spesso gratuitamente. Ma è anche una scelta concettuale: sono affascinata dai processi DIY e dai materiali alternativi. Per me, essere artista significa anche trovare modi creativi per lavorare con quello che si ha, senza aspettare le condizioni ideali. 

ESTHER GAMSU E LA CURATELA 

Hai detto che inizi a pensare al pubblico solo nella fase di installazione. Come cambia il tuo lavoro nello spazio espositivo?  
Lavorare in modo site-specific mi entusiasma molto. Amo la scultura pubblica e la sfida di inserire un’opera in un contesto condiviso. In studio lavoro in modo solitario, ma quando le opere entrano nello spazio espositivo inizia un’altra fase: mi chiedo come il pubblico possa interagire, in modo diretto o indiretto. 

Hai mai lavorato con curatori che hanno influenzato la tua pratica? Che ruolo ha per te la curatela?  
Sì, ho avuto alcune esperienze molto positive. Collaborare con curatori che condividono il mio interesse per certi temi è sempre stimolante. Il confronto mi aiuta a sviluppare ulteriormente il mio lavoro, sia a livello teorico che pratico, e spesso è l’occasione per entrare in dialogo con altri artisti vicini per sensibilità. 

Infine, perché da bambina avevi paura di Michael Jackson?  
Avevo dieci anni quando era sotto processo per pedofilia. Lo vedevo continuamente in TV, circondato dai paparazzi, con quegli occhiali scuri e i capelli sul viso. La sua immagine così estrema, unita alla rappresentazione mostruosa che ne davano i media (giustamente), mi spaventava profondamente. 

Ilona Prozorova 

https://esthergamsu.com/

  • Bleacher (2025) by Esther Gamsu, constructed from wood, PVA, and gloss paint. The work evokes the form of tiered seating, blending minimalist structure with a polished, reflective finish.
  • Exhibition view of Slow Manifesto, 2025, at the School for Curatorial Studies Venice, A plus A Gallery. Photo by Clelia Cadamuro.
  • Still from Bugsy Malone (2017), a 31-minute video by Esther Gamsu. Courtesy of the artist. Photo by Clelia Cadamuro.
  • Portrait of Esther Gamsu photographed by Andy Keate
  • Bed (2025) by Esther Gamsu, made of MDF, paint, glue, printed cotton, and foam. The work resembles a handcrafted, upholstered structure combining sculptural form and domestic materials.
  • Mask (2025) by Esther Gamsu, made of latex, acrylic paint, and varnish. The piece presents a textured, molded surface suggestive of a theatrical or symbolic facial form.