Curatore, docente e attivista, Marco Baravalle è tra i fondatori di S.a.L.E. Docks, spazio indipendente veneziano che promuove mostre e iniziative incentrate sul binomio arte e riflessione politica. In questa intervista abbiamo approfondito la sua visione e il suo modo di intendere la curatela.
S.a.L.E. Docks e The Institute of Radical Imagination sono due realtà chiave per comprendere il pensiero e l’approccio alla curatela di Marco Baravalle. Membro del collettivo di attivisti che, nel 2007 a Venezia, ha dato vita a S.a.L.E. Docks, occupando uno dei Magazzini del Sale e trasformando così uno luogo ormai in disuso in uno spazio indipendente per le arti contemporanee, da allora Baravalle ha contribuito alla definizione di una realtà capace di rovesciare i processi che privatizzano i commons culturali, di includere gli operatori culturali locali e di ospitare progetti internazionali.
La missione di The Institute of Radical Imagination ha origini simili, impegnandosi in azioni di solidarietà internazionale nel Mediterraneo e nel Sud globale. Idealmente si interpone tra l’istituzione ufficializzata e un centro sociale, innescando processi di mutua contaminazione per la convergenza tra arte e vita.
Docente di Storia e pratiche della curatela, Marco Baravalle ha condiviso con noi il suo modo di intendere il ruolo di curatori e curatrici a partire dalla propria ricerca.
L’INTERVISTA A MARCO BARAVALLE
Nel suo libro L’autunno caldo del curatore, edito da Marsilio Editori, si avverte un’urgenza politica che mette in discussione i presupposti stessi dell’istituzione curatoriale. Possiamo ancora parlare di “neutralità” del curatore? Quali intenti hanno guidato la sua riflessione sul ruolo curatoriale contemporaneo?
Nel libro che citi cerco, attraverso il focus su Harald Szeemann, di tracciare una genealogia inusuale della figura del curatore. Non mi concentro tanto sul dibattito intorno alla coppia neutralità/autorialità, piuttosto metto in luce come il modello affermatosi a partire da Szeemann sia diventato egemonico poiché codifica una figura neoliberale: un imprenditore del sé, flessibile e creativo. Secondo la narrazione ufficiale il curatore indipendente sarebbe un prodotto della temperie del Sessantotto (è lo stesso Szeemann a raccontarla così). In realtà, sotto la patina di romanticismo si cela una figura assolutamente in linea con il divenire cognitivo del capitalismo e le nuove esigenze di mercato. Di contro, voglio mettere in luce modelli curatoriali differenti. Ad esempio il lavoro di Enrico Crispolti tra il ‘73 e il ’77 che è interessante perché si concentra su una nuova figura che il critico definisce “co-operatore estetico”. Nel nuovo libro che sto scrivendo per l’editore Verso approfondisco questo aspetto solo accennato ne L’autunno caldo del curatore.
S.a.L.E. Docks nasce dalla volontà di generare un cambiamento sociale e culturale. Quando e perché ha sentito l’esigenza di dare vita a un progetto come questo?
È stata un’idea collettiva, nata in seno al movimento dei centri sociali veneziani. Era il 2007, partivamo dalla constatazione che Venezia si stesse sempre più orientando verso il contemporaneo, ma anche che l’arte si stesse sempre di più avvicinando al capitale e che si intrecciasse con la rendita immobiliare e l’industria del turismo. Volevamo quindi un luogo per organizzare i tanti precari del lavoro culturale e per sperimentare una progettualità artistica che seguisse logiche diverse da quelle della Biennale o delle grandi fondazioni private che da allora si moltiplicano senza sosta a Venezia.
Quali significati attribuisce all’idea di comunità come curatore, studioso e attivista?
Dipende da quale tipo di comune definisce la comunità. Se si tratta di identità nazionali o etnico-religiose, come sempre va a finire male. Al contrario, se una comunità si fonda su presupposti di giustizia sociale, sull’utilizzo comune delle risorse, se è slegata da identità essenzializzate, se il termine comunità non allude a un punto di partenza indiscutibile, ma a un continuo lavoro di revisione della propria costituzione e delle proprie istituzioni, allora diventa una risorsa.
CURATELA E ATTIVISMO SECONDO MARCO BARAVALLE
Assistiamo al crescente fenomeno del turismo di massa, e proprio in questo contesto prolifera l’impoverimento culturale a favore di un arricchimento estrattivista, soprattutto in città come Venezia. Qual è, secondo lei, l’atteggiamento da assumere da parte di chi in questo ambito vuole continuare a operare?
Credo sicuramente che non ci si possa più esimere da una critica radicale di questo fenomeno le cui ricadute sociali e ambientali mettono a rischio il tessuto sociale di intere città e l’integrità di molti habitat.
Da docente, come ritiene che le nuove generazioni di studentesse e studenti di arte e curatela stiano affrontando la precarietà quotidiana, generata da una pressione sociale competitiva e da salari sempre meno remunerativi?
Da una parte, mi pare che ci sia una consapevolezza sempre maggiore della precarietà, dall’altra che si faccia ancora difficoltà a rispondere non solo in forma individuale, ma anche in forma collettiva. La congiuntura politica reazionaria in cui ci troviamo non aiuta certamente. Però qualcosa si muove sempre. A Venezia, abbiamo fondato Biennalocene, un’assemblea di lavoratori precari della cultura nella città lagunare. A livello nazionale, Mi Riconosci fa un gran lavoro intorno ai beni culturali e “Vogliamo tutt’altro” è una rete che si è formata contro il tentativo del governo Meloni di smantellare la scena indipendente delle arti performative.
Una figura come l’artivista è ancora possibile? Cosa consiglierebbe a chi decide di intraprendere questo tipo di percorso oggi? Quali rischi comporta questa scelta all’interno di un sistema dell’arte sempre più normalizzante e precario?
Sì, è assolutamente possibile tracciare dei percorsi di vita e lavoro alternativi rispetto a quelli che il capitale programma per i lavoratori dell’arte. Non ci sono ricette, l’unica cosa che mi sento davvero di consigliare è di agire collettivamente. I rischi? Dipende. È possibile che all’inizio si venga completamente marginalizzati o magari repressi, anche a seconda dei trend di mercato. È possibile che il sistema cerchi di assorbire te o il tuo lavoro. In ogni caso, chi opera scelte “radicali” rimane molto spesso un outsider ed è anche il mio caso. Ciò detto, da solo non riuscirei a fare granché, soprattutto non ci sarei riuscito quando avevo 25 anni. Forse avrei mollato tutto, forse mi sarei adeguato a diventare ciò che non volevo diventare. Il fatto di stare in un collettivo, a sua volta in una rete di collettivi, e la costruzione di una rete internazionale di rapporti basati su una visione comune dell’arte e del mondo, sono elementi senza cui il mio percorso non sarebbe mai stato possibile.
DISSENSO E ISTITUZIONI CULTURALI
Quali sono, a suo avviso, le pratiche artistiche che oggi riescono davvero a sabotare l’estetizzazione del dissenso?
Il dissenso, da sempre, ha le sue estetiche, ma non può ridursi a campionario di forme, esercizio di stile. Dunque è fondamentale non separare le estetiche del dissenso dai processi sociali più ampi da cui emergono. Da un’altra prospettiva, direi che è importante posizionarsi, o perlomeno non solo, rispetto alla mappa individuale dei privilegi e delle subalternità, ma rispetto alle istituzioni del circuito artistico e agli effetti di cattura ed esclusione che, a seconda dei casi, proiettano.
Quale ruolo possono giocare le istituzioni d’arte pubbliche nel panorama culturale odierno? Sono ancora un campo di battaglia aperto o un terreno ormai compromesso?
Dipende, l’attivismo decoloniale più serio ha smascherato la filantropia tossica che alimenta molti grandi musei privati. Di questi musei, sull’onda dell’attivismo storico afroamericano, si chiede l’abolizione, non più la riforma. Chiaro, l’abolizione è un orizzonte, è una maratona e non uno sprint e non c’è abolizione senza la contemporanea tensione a istituire qualcos’altro. Questa tensione istituente mi pare fondamentale, io l’ho chiamata alter-istituzionalità, cioè l’organizzazione e non solo l’immaginazione di istituzioni dell’arte che funzionino diversamente rispetto al modello neoliberale. Ma nemmeno il pubblico è una garanzia, perché pure nel pubblico si riscontra un certo ritorno all’ordine. Si pensi alle tante censure di voci pro-Palestina negli ultimi anni. È pur vero che esistono eccezioni, ma il metro di giudizio non può limitarsi ai temi delle mostre, più o meno progressisti. Conta soprattutto il posizionamento politico delle istituzioni, le loro alleanze locali e internazionali, il modo in cui scelgono di giocare il proprio peso politico-culturale. I modelli di governance e quelli curatoriali.
Le realtà di S.a.L.E. Docks e The Institute of Radical Imagination quanto e cosa le hanno insegnato?
Mi hanno insegnato quasi tutto, nel bene e nel male. Mi insegnano il faticoso ma fondamentale lavoro della creazione di spazi di autonomia. È un lavoro collettivo di immaginazione, confronto, di organizzazione e cura costante.
Per concludere, nel frammentato panorama contemporaneo, come cerca di rimanere fedele a se stesso e alla sua etica da curatore indipendente?
Per le ragioni che ho provato a esplicitare nella prima risposta, direi che la mia non è un’etica da curatore indipendente. Non è tanto a me stesso che rimango fedele, ma a una visione del mondo condivisa, un mondo che è ancora largamente da costruire. Forse un giorno mi accorgerò di essere stato un ingenuo, un cretino o peggio, allora sarà il momento di essere fedeli a se stessi e cambiare strada. Quel giorno, però, non è ancora arrivato.
Maria Rosaria Santosuosso


