Fra tempo e materia: conversazione con Giorgio Andreotta Calò

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Protagonista del Padiglione Italia alla Biennale Arte di Venezia del 2017, Giorgio Andreotta Calò parla del suo processo creativo, della sua relazione con la materia e del dialogo, spesso complesso, tra l’intuizione dell’artista e la mediazione del curatore.

L’incontro con il lavoro di Giorgio Andreotta Calò (Venezia, 1979) è stato, per me, raro. Con un background formativo nel campo dell’ingegneria dei materiali, il mio sguardo è abituato a decifrare il mondo attraverso grafici di tensione e leggi fisiche. Eppure, di fronte alle sue opere, quel linguaggio tecnico si è trasfigurato in poesia visiva. Le sue Clessidre in bronzo, nate dalle briccole veneziane corrose dalla marea, evocano in me l’immagine dei provini d’acciaio portati a rottura in laboratorio. Ma laddove io vedo un punto di frattura, un limite meccanico, Giorgio Andreotta Calò vede un’impronta del tempo, una forma che custodisce la memoria della laguna. Questa duplice lettura, questo ponte tra il rigore scientifico e l’immaginazione artistica, è il motore della nostra conversazione. 
Giorgio Andreotta Calò è una delle figure centrali nel panorama dell’arte contemporanea italiana, la cui ricerca si muove tra scultura, performance e installazione. La sua pratica artistica è profondamente radicata nei luoghi che ha attraversato e abitato, da Venezia, sua città natale e fonte inesauribile di ispirazione, a Berlino e Amsterdam, dove ha completato la sua formazione. 
I temi ricorrenti nella sua poetica sono lo scorrere del tempo, inteso come processo dinamico di trasformazione, e la stratificazione, che si manifesta in un’indagine quasi archeologica dei luoghi e dei materiali. Attraverso opere come le Clessidre, i Carotaggi o azioni performative come Il Ritorno, Giorgio Andreotta Calò instaura un dialogo profondo con la materia, l’architettura e la memoria, invitando lo spettatore a riconsiderare il proprio rapporto con lo spazio e il tempo.

Two installation views of Scultura lingua morta at Ca’ Pesaro – Galleria Internazionale d’Arte Moderna, Venice, showing large sculptural forms within the museum galleries. Photo by Kirsten Suzanna de Graaf.
Scultura lingua morta, exhibition view, Ca’ Pesaro – Galleria Internazionale d’Arte Moderna, Venezia, 2024–2025. Photo by Kirsten Suzanna de Graaf

INTERVISTA A GIORGIO ANDREOTTA CALÒ

La tua pratica artistica spesso parte da materiali, come il legno delle briccole, che subiscono un processo di trasformazione nel tempo. Con l’opera Clessidra, però, scegli di tradurre questo processo in bronzo. Cosa significa per te fermare un processo naturale in una forma scultorea così definitiva?
Il mio intervento, in realtà, si inserisce in un processo di trasformazione molto più lungo e già in atto. Il materiale di partenza è un albero, che viene tagliato, lavorato e infine piantato nell’acqua della laguna. Lì, subisce un’ulteriore trasformazione: il movimento delle maree lo corrode, imprimendo su di esso una traccia visibile dell’ecosistema. Io arrivo nel momento in cui questi pali, assottigliati, si spezzano e vanno alla deriva. Ho iniziato a raccogliere questi frammenti, affascinato dalle loro forme. La scultura nasce dalla combinazione speculare di due di questi elementi, generando la forma di una clessidra. Questo richiama l’idea del riflesso, ma anche il significato etimologico della parola: dal greco kléptein (rubare) e hýdōr (acqua), “rubare l’acqua”. La decisione di tradurre tutto questo in bronzo è una volontà precisa: dare una forma fissa, cristallizzata e resistente a un elemento che altrimenti sarebbe destinato a consumarsi. È un modo per definire un momento preciso, per congelare in una forma un processo che altrimenti svanirebbe.

Stai sperimentando nuove tecnologie come la scansione 3D. Come vedi evolvere questo processo e il rapporto tra elemento naturale e meccanico nel tuo lavoro futuro?
Ora stiamo usando la scansione e la stampa 3D, che ci permette un ulteriore passaggio. Scansioniamo il pezzo di legno originale e poi lo stampiamo in 3D invertendo l’algoritmo, creando così una forma “opponibile”, speculare a quella di partenza, come le nostre mani. Questo realizza pienamente l’idea del riflesso. È un processo che vorremmo portare avanti, perché segna un punto di incontro tra l’elemento naturale e quello meccanico, un’ibridazione che si sta verificando sempre di più oggi. Da qui, potremmo pensare di usare materiali diversi, magari con proprietà riflettenti, che aprirebbero l’opera a una nuova dimensione, trasformandola in una soglia verso lo spazio e l’ambiente circostante.


La mostra alla Litografia Bulla a Roma è un esempio di collaborazione “a quattro mani”. Com’è nata e perché ha funzionato?
Lì il format della galleria, “finestre sul paesaggio”, forniva già una cornice curatoriale molto forte. Loro hanno individuato la vetrina sulla strada come un display, un diaframma tra lo spazio interno e quello pubblico. A me è stato proposto di lavorare all’interno di questa cornice. Il mio interesse è stato modificare quel diaframma trasparente, virando la colorazione del vetro al verde acqua per creare un ambiente immersivo, quasi sottomarino. Questo colore rafforzava la narrazione dell’opera, legata alla parte del legno corrosa dall’acqua. Il dialogo è stato molto affiatato: loro conoscevano bene lo spazio e hanno fatto proposte, ma si sono anche lasciati sorprendere. Avevamo lavorato insieme alle stampe, quindi conoscevamo tutti molto bene il materiale.

IL LAVORO DI ARTISTI E CURATORI SECONDO GIORGIO ANDREOTTA CALÒ

Opere come Pinna Nobilis possono trasformarsi o essere ripensate in ogni mostra. Quali sono le principali sfide per l’artista e il curatore di fronte a opere in mutamento e come si preserva la poesia di questi processi nell’allestimento?
I lavori hanno un margine di modificazione quando vengono inseriti in uno spazio. A Ca’ Pesaro, le Pinne Nobilis sono state ripensate in rapporto alla sala espositiva. Si è deciso di inserirle negli stipiti delle porte, agganciate a tubi verticali che richiamavano l’allestimento della Biennale del 2017. In quell’occasione sono state anche capovolte. Questo è possibile perché sono sculture di piccole dimensioni, più gestibili. Opere come le Clessidre, invece, hanno una loro fissità e meno margine di modifica. Il vero ripensamento dell’opera avviene in fase di realizzazione, quando si lavora sulla cera. Una volta fuso, il margine di cambiamento si sposta su come l’oggetto viene allestito nello spazio che richiede un dialogo con il curatore.


In una mostra come CITTÀDIMILANO, hai trasformato il Pirelli HangarBicocca usando il dispositivo della camera oscura. Come si rende accessibile a un pubblico non specialista un concetto così complesso, che richiede tempo e adattamento della vista?
Io cerco di lavorare su una stratificazione di significati. Un’opera deve potersi aprire a diverse letture, da quella più immediata e formale a quella più profonda, a seconda della sensibilità e della predisposizione dello spettatore. Per quanto riguarda l’accessibilità, va intesa in vari modi. A volte, una certa difficoltà può spingere lo spettatore a un’indagine più attiva. Altre volte, si devono fare delle scelte. Per il Padiglione Italia alla Biennale, ho avuto una discussione con la curatrice Cecilia Alemanni perché la scalinata che avevamo progettato non era accessibile a persone con disabilità. Mi fu chiesta una rampa, ma ho dovuto mettere sul piatto della bilancia l’esigenza estetica e funzionale dell’opera e quella dell’accessibilità. Alla fine mi sono imposto, pur sapendo di escludere una fetta di pubblico, perché modificare il progetto avrebbe indebolito la resa finale del lavoro. Non credo che si debba sempre sacrificare la forza di un’opera per renderla universalmente accessibile.

Installation set-up view of Produttivo at Pirelli HangarBicocca, Milan, photographed during installation on 27 January 2019.
Produttivo, set-up, Pirelli HangarBicocca, Milano, 27 January 2019. Photo by Giorgio Andreotta Calò


L’opera-percorso Il Ritorno unisce performance, tempo e territorio. Come si può trasporre un’esperienza così complessa in modalità espositive tradizionali senza perderne la dimensione performativa?
In quest’opera si è voluto lavorare sull’assenza o meglio ancora su un’idea di attesa, di avvento. Al pubblico è stato chiesto un atto di fede, ovvero immaginare che in quel preciso istante in cui si trovava all’interno del luogo dell’avvento, il luogo a cui tendeva l’azione del ritorno (il Giardino delle sculture progettato da Carlo Scarpa), questo ritorno si stava realmente compiendo altrove, tra Amsterdam e Venezia appunto. Si è trattato di lavorare sulla potenza evocativa di un gesto radicale, che esclude la presenza fisica di un oggetto nello spazio espositivo ma al contempo apre a una possibile dimensione immaginativa.


Quanto è cruciale il testo curatoriale o critico per la comprensione del lavoro, e cosa distingue un testo efficace da uno superfluo?
Ho sempre dato molta importanza al racconto che sta dietro a un’opera. Il nostro archivio concede largo spazio a questa parte narrativa, perché i miei lavori si prestano a un racconto complesso. Oggi, però, vedo che c’è poco tempo per concentrarsi veramente su un lavoro, e molti testi sono semplicemente dei “copia e incolla” di informazioni prese in rete. Costruire un testo che serva veramente a qualcosa richiede o una grande sensibilità, che è di pochi, oppure una grande dedizione e studio. È un lavoro complesso.

CRITICA E FUTURO

Per criticare un’opera è necessario contestualizzarla nel presente o basta un esercizio di sensibilità?
Il lavoro deve risuonare nel suo presente. Ma è anche vero che ci sono opere che trascendono la temporalità. A me interessa di più questo aspetto: quando un’opera riesce a uscire da una dimensione contingente e si apre a una riflessione più ampia, assoluta, quasi fuori dal tempo, raggiungendo un grado di assolutezza che la rende sempre attuale.


Guardando al futuro, come immagini o speri che evolva il rapporto tra artisti e curatori?
Troppo spesso incontro un approccio che definirei “estrattivo” o “parassitario”. E non riguarda solo i curatori: a volte, anche gli artisti mancano di competenze pratiche fondamentali. C’è una diffusa incapacità di leggere uno spazio, di gestire la complessità di un allestimento, di sapere anche solo “piantare un chiodo”. Questa incompetenza porta a delegare o ad accontentarsi, indebolendo il risultato finale. Un curatore/curatrice, per me, è chi si confronta con l’opera a tutti i livelli, dalle basi logistiche alla ricerca concettuale. Credo che assisteremo a una selezione naturale: la situazione attuale metterà alla prova molte fragilità e premierà chi lavora con serietà e dedizione, chi è disposto a partire dalle basi e a costruire un percorso di conoscenza reale.


Quali qualità dovrebbe possedere un curatore oggi per generare un reale plusvalore?
Un curatore è una persona che si è confrontata con tutta la complessità del fare una mostra. Una persona che ha capito anche cosa significa allestire, ma veramente: da come movimenti una cassa a come installi un’opera, fino alla comunicazione e alle strategie economiche. Ci vuole umiltà nel riconoscere che c’è un lungo percorso da fare prima di poter curare una mostra. Bisogna partire dalle basi.


Comunicati stampa e progetti come Produttivo collegano il tuo lavoro a dibattiti su materie prime e cambiamenti socio-ecologici. Qual è il ruolo dell’artista in questo dibattito? Deve essere un attivista?
Non mi interessa creare opere “a tavolino” per seguire l’onda di un dibattito specifico. Quei lavori rischiano di morire una volta che il dibattito si conclude. Preferisco lavorare sulla complessità, creando opere che ambiscono a un valore più assoluto, quasi fuori dal tempo, ma che proprio per questo si offrono a diverse prospettive di indagine. Un’opera come i carotaggi del Sulcis può essere letta come una riflessione sulla forma scultorea, ma anche come un commento sull’economia estrattiva o sulla percezione psicologica dello spazio. Un lavoro complesso rimane comunicativo nel tempo e può essere interrogato da diverse urgenze, inclusa quella ecologica, senza esserne confinato.


Oltre a nuove metodologie di produzione, quali strategie e formati espositivi immagini per recuperare tempo, complessità e qualità?
Bisogna attivare strategie nuove e diverse. Ogni mio progetto nasce come risposta a una situazione o a un limite, che in qualche maniera genera una possibilità e quindi un’innovazione. Il mio studio, per esempio, è un luogo assurdo dove pensare di fare scultura, è quasi impossibile di per sé; eppure, questo limite spinge a pensare a strategie diverse, a ripensare il modo di produrre, magari tornando a un certo modo di fare arte. È fondamentale tornare a una dimensione del fare meno concitata e compulsiva. Bisogna ridurre sul fronte della produzione e dedicare più tempo ai singoli lavori, se non altro per recuperare quella complessità nel dare forma alle opere che si sta progressivamente perdendo. La qualità generale sta diminuendo notevolmente. Si produce tanto, si fanno mostre in continuazione, molte delle quali sono assolutamente inutili: sono più delle feste che non lasciano niente. Credo che sempre di più verrà fatta una selezione naturale tra chi ha intrapreso questa strada pensando che fosse una scorciatoia e chi invece l’ha presa molto seriamente. Bisogna cercare di far capire la complessità che sta dietro a un’opera, investire sulla sua storia, su tutto ciò che la sostiene.

Linda Rubino

Studio Giorgio Andreotta Calò

  • Portrait of Giorgio Andreotta Calò photographed in his studio
  • Installation set-up view of Produttivo at Pirelli HangarBicocca, Milan, photographed during installation on 27 January 2019.
  • Installation view of Ritorno (2011) by Giorgio Andreotta Calò, exhibited in ILLUMInazioni at the 54th Venice Biennale.
  • Two installation views of Scultura lingua morta at Ca’ Pesaro – Galleria Internazionale d’Arte Moderna, Venice, showing large sculptural forms within the museum galleries. Photo by Kirsten Suzanna de Graaf.
  • Two installation views of Scultura lingua morta at Ca’ Pesaro – Galleria Internazionale d’Arte Moderna, Venice, showing large sculptural forms within the museum galleries. Photo by Kirsten Suzanna de Graaf.
  • Two set-up views of CITTÀDIMILANO at Pirelli HangarBicocca, Milan, showing installation work in progress on the large-scale sculpture. Photo by Giorgio Andreotta Calò
  • View of chapter sixteen from the series Passaggi produced at Litografia Bulla in Rome, showing a detailed print by Giorgio Andreotta Calò
  • Two set-up views of CITTÀDIMILANO at Pirelli HangarBicocca, Milan, showing installation work in progress on the large-scale sculpture. Photo by Giorgio Andreotta Calò
  • Installation view of Senza titolo (La fine del mondo), Pinna Nobilis (2017) in the lower level of the Italian Pavilion at the 57th Venice Biennale. Photo by Kirsten Suzanna de Graaf.