L’ex birrificio industriale della Giudecca a Venezia da oltre un decennio è diventato emblema di cultura alternativa e sperimentale. Qui nel 2011 nasceva Spazio Punch, fondato da Augusto Maurandi e Lucia Veronesi, oggi punto di riferimento della scena artistica indipendente lagunare.
Augusto Maurandi, come tiene lui stesso a sottolineare, non è un curatore nel senso tradizionale. È interessato, invece, a un rapporto orizzontale con gli artisti, lontano dalle logiche gerarchiche e dalle sovrastrutture teoriche. L’obiettivo non è quello di incorniciare le opere, ma di accompagnarle nel loro contesto più autentico, mettendo in risonanza persone le idee e linguaggi. Proprio come accade a Spazio Punch, realtà da lui fondata insieme a Lucia Veronesi sull’isola della Giudecca a Venezia.
La mostra Peekaboo è stata presentata come un tentativo di Spazio Punch di posizionarsi ai margini della curatela tradizionale, muovendosi tra social network e pratiche artistiche. Cosa vi ha spinto a esplorare questa zona di confine? In che modo pensi che i social media possano contaminare, arricchire o persino ridefinire la pratica curatoriale oggi?
È nelle zone di confine che le cose accadono.
Peekaboo (12-27 aprile 025) è stato un esperimento. Spencer Lackney è un attore statunitense con un profilo instagram – @spencerlookrey – da 3 milioni di follower. Non è un artista contemporaneo dentro il sistema e proprio per questo ci interessava. Abbiamo dovuto contattare il suo agente a Hollywood, cercare un dialogo attraverso un’ulteriore intermediazione oltre il mezzo digitale.
Ci eccitava entrare in un mondo sconosciuto. Spencer lavora con un flusso continuo di reel online; la sfida era prendere quel linguaggio e dargli uno spazio fisico, creare delle installazioni con video pensati per IG, rallentandolo senza addomesticarlo. Per realizzare questi spazi installativi abbiamo collaborato con il set designer Cosimo Ferrigolo, che ha saputo dare all’allestimento una fisicità che lo avvicina all’esperienza teatrale.
Il risultato è un dispositivo tecnonarrativo coreografico tra analogico e digitale, dove la distinzione tra dentro e fuori è completamente saltata. Se la mostra è un corpo, i social sono le sue molecole. Con Peekaboo volevamo ascoltare quel ritmo, farci attraversare. E restare, anche solo per un attimo, in quella soglia di vibrazione, prima che il flusso di immagini e presenze tornasse nel digitale. Per un momento quello spirito ha abitato con noi Spazio Punch.
Più volte hai espresso con forza una distanza rispetto alla figura tradizionale del curatore. Quali esperienze o riflessioni ti hanno portato a prendere una posizione così netta e a sviluppare un approccio alternativo, più orizzontale e relazionale?
Prendere distanza è stato per me un gesto necessario, quasi fisiologico. Una postura che mi ha permesso di riflettere e di sottrarmi a certe dinamiche ripetitive, spesso stereotipate. Non si è trattato di un rifiuto ideologico della figura del curatore in sé, ma di una critica verso ciò che questa figura è diventata in molte pratiche contemporanee: un esercizio di potere travestito da pensiero, spesso sostenuto da testi infarciti di citazioni per giustificare progetti vuoti.
Non mi sento affatto distante da figure come Germano Celant, che ha trasformato la scrittura in un dispositivo curatoriale capace di concettualizzare interi movimenti. O Catherine David, che con Documenta X ha tracciato linee chiare tra estetica e geopolitica, aprendo spazi a voci laterali e riconoscendo il peso specifico di archivi e documenti. Né da Massimiliano Gioni, che ha saputo contaminare il contesto museale con outsider art, cultura popolare e collezioni eccentriche.
Quando lavori davvero con artistɜ, capisci che una mostra è prima di tutto energia collettiva. Serve attenzione, cura reale. Curare non significa dirigere, ma accompagnare. È una pratica di ascolto e di fiducia. Senza fiducia, non c’è mostra.
LA CURATELA SECONDO AUGUSTO MAURANDI
Abbiamo ancora bisogno di curatori?
Credo che la figura del curatore possa assumere molteplici forme. L’importante è che sappia trovare una propria specificità, un proprio linguaggio, un proprio metodo di studio.
Penso, ad esempio, alla mostra Fragile Masculinity (23 marzo ‒ 5 aprile 2024) di Geelherme Vieira ‒ un’altra mostra nata su Instagram. Nei primi incontri eravamo un vero vulcano di idee e materiali. Era uno di quei momenti in cui tutto sembrava possibile, persino l’errore, l’eccesso, l’azzardo.
È proprio per questo che ho deciso di affidare la curatela a Tommaso Speretta, curatore, scrittore e editor basato a Venezia. Da anni Tommaso lavora e approfondisce pratiche artistiche LGBTQIA+: c’era bisogno di uno sguardo esterno, di una sensibilità nella scelta del materiale e nella costruzione del racconto espositivo.
Per tornare alla tua domanda, sì, credo che abbiamo ancora bisogno del curatore. Il punto è capire quando esserci o quando, invece, è il momento di sparire.
Quali sono le caratteristiche che ti orientano quando decidi di collaborare con un artista?
La vertigine. Il desiderio di vedere qualcosa che non ho mai visto prima o qualcosa che conosco, ma che ora appare diversa. È lì che scatta la scintilla. Poi, certo, serve passione. Ma soprattutto: intuizione. È come innamorarsi ‒ non sai spiegare il perché, ma lo senti addosso.
Come è successo con l’ultimo concerto che abbiamo presentato: Motore Immobile + Rappel (8 giugno 2025) di Giusto Pio. È stata la prima volta, dopo cinquant’anni dalla loro nascita, che queste composizioni venivano eseguite dal vivo. Opere originali del minimalista sonoro italiano Giusto Pio, per anni collaboratore musicale e non solo di Franco Battiato.
Le mie scelte nascono sempre da lì, dal desiderio di scoprire qualcosa di nuovo o di mostrare ciò che già esiste in un’altra prospettiva.
Passione. Intuizione. Sei tu. Ti voglio. Desiderio.
Qual è oggi il ruolo di Spazio Punch nel panorama veneziano?
Sin dall’inizio Spazio Punch ha cercato di portare novità, spostare assi, interrogarsi sul contemporaneo, guardando in avanti, ma anche a ritroso, con l’intento di offrire interpretazioni inedite e attuali.
Durante gli anni del lockdown abbiamo fatto veri e propri slalom per portare avanti i progetti. Un esempio emblematico è quello di Fondazione Malutta, con la quale avremmo voluto realizzare una mostra di un mese all’interno di Spazio Punch. Alla fine, causa lockdown, sono rimasti intrappolati con noi per oltre sei mesi. Quell’imprevisto è stato un trigger che ha trasformato Punch in uno studio, un campo d’addestramento. È stata un’occasione unica per lavorare su grandi formati, consolidare il gruppo, produrre opere.
In quel periodo, insieme alla curatrice basata a Venezia Giulia Morucchio, abbiamo curato Penisola (20 maggio ‒ 1° agosto 2021), una mostra tra editoria e fotografia italiana, Belmondo (19 febbraio – 26 marzo 2022), una collettiva di giovani creativi che lavorano tra le arti visive, la moda, la musica, il design, la fotografia e la performance, e TV Punch (19-21 marzo 2021), un format televisivo sperimentale costruito in risposta alle impossibilità lavorative e di ricerca causate dalle restrizioni governative dovute alla pandemia.
Siamo stati tra i primi a dare spazio a creative e creativi ancora in fase di formazione attraverso la presentazione delle restituzioni dei corsi finali delle università, soprattutto con lo Iuav di Venezia. Crediamo nelle nuove energie, cosa rara nel contesto veneziano. Basta guardare il programma delle gallerie e istituzioni; fino a due anni fa era tutto molto diverso, non c’era spazio per i giovani. Oggi qualcosa si è aperto e questo è un segnale incoraggiante. Penso che Punch abbia seminato un terreno fertile affinché cose belle potessero accadere.
LA STORIA DI SPAZIO PUNCH
Quali sfide incontrate nel mantenere una posizione indipendente e sperimentale in un contesto fortemente istituzionalizzato come quello lagunare?
Ci hanno attributo l’etichetta di indipendente e sperimentale, che per me si traduce in fare le mostre che vorrei vedere e che il nostro pubblico vuole vedere, a volte anche prendendoci il rischio di operazioni difficili da contenere. Il pubblico che partecipa alle mostre si sente parte del progetto perché in definitiva ne fa realmente parte.
In un certo senso sarebbe sicuramente più facile muoversi all’interno e da un’istituzione più consolidata. Certo è che un’esperienza come quella del Cruising Pavilion (24 maggio – 1° luglio 2018) – una mostra che guardava all’architettura a partire da pratiche gay sex e cruising cultures – è unica e, soprattutto, possibile solo in ambienti come Spazio Punch. È un equilibrio precario tra le libertà e gli s/vantaggi che ogni posizione genera.
Cosa significa per te, oggi, “fare cultura indipendente”?
Penso subito all’Indie intesa come categoria musicale per le sue libertà creative, per la sperimentazione, ma anche i budget ridotti e l’approccio DIY (Do It Yourself). Mi sento molto identificato da questi aspetti e se il prodotto presentato è di qualità non si rimani isolati, il DIY è sempre anche DIWO (Do It With Others).
È ancora una posizione politica, oppure è diventata un’altra forma di istituzione?
L’indipendenza è sempre una posizione politica, ma non nel senso retorico del termine. È politico il modo in cui scegli con chi lavorare e cosa mostrare. L’indipendenza è una micropolitica quotidiana, non una bandiera ma una pratica.
Come per gli slogan politici sui vestiti della collezione A/W 2025-2026 e sulle poltrone di Walter Van Beirendonck, che abbiamo deciso di portare a Venezia in occasione della 19. Biennale di Architettura di Venezia per la mostra Alien Couch (10 maggio – 27 luglio 2025). Non sono slogan vuoti, ma una presa di posizione chiara – tanto nostra quanto sua – rispetto al momento che stiamo vivendo.
Punch ha sempre abitato i margini e dialogato con le periferie, culturali, ideologiche, di genere. Nei progetti realizzati ci interessa la creatività e cerchiamo di fuggire da auto-rappresentazioni folkloristiche o propagandistiche del disagio.
Che ruolo ha l’editoria nella vostra visione curatoriale?
La doppia pagina per noi è una mostra pieghevole. A volte una pubblicazione dice più di una mostra: è più lenta, più intima, più sfuggente, lascia tracce che durano di più. Lo scarto tra testo e immagine, tra layout e contenuto diventa un vero e proprio ecosistema curatoriale.
L’Edicola (25 maggio – 30 giugno 2012), mostra curata insieme allo studioso e curatore Saul Marcadent che rifletteva sull’editoria indipendente ‒ una delle prime in Italia ‒, ne è un esempio concreto. Così come la mostra Sniffing Books. Myths, Stigmas, and Writings on Drugs (20 aprile – 24 novembre 2024), selezione di libri curata dalla ricercatrice Alessia Prati, con cui abbiamo partecipato a I Never Read a Basilea, o la presentazione di archivi personali come Undusted Archive di Caterina Dal Bianco e Christian Gravante.
I PROGETTI DI SPAZIO PUNCH
Dopo oltre dieci anni di attività, come si sta evolvendo Spazio Punch?
Stiamo cercando il modo migliore per sparire e, allo stesso tempo, restare. È una tensione che ci piace. Ogni tanto fantastichiamo su progetti irrealizzabili, ma poi torniamo con i piedi per terra e ricominciamo. Facciamo tutto con tanto sforzo e passione, ma ci mancano le risorse e siamo sempre un po’ in apnea.
Quali dinamiche relazionali si sviluppano nel lungo periodo tra te, gli artisti e i collaboratori?
Si coltivano. Si curano, come le piante. Non tutto succede nel tempo di una mostra. Ci sono progetti che iniziano oggi e magari si realizzano fra cinque anni. O forse mai. L’importante è non bruciare tutto per l’hype. Le cose belle hanno bisogno di ossigeno. Del progetto Evropa conoscevo le designer fin da quando studiavano allo Iuav; ho sempre seguito il loro lavoro e le ho invitate a presentare le loro collezioni dopo tanto tempo con l’evento Mother Nature (16 marzo 2024).
Come si mantiene viva una comunità di lavoro che non si esaurisce nel singolo evento espositivo?
Cercando nuove esperienze e realizzando eventi unici. Se necessario, entriamo in ibernazione. Possiamo fiorire senza dare frutti, restando ad aspettare per crescere nuovamente con un progetto futuro.
Che tipo di pubblico vorresti intercettare oggi con la vostra proposta culturale?
Un pubblico transdisciplinare che si muova tra diversi settori culturali: arte, moda, architettura, design. Spesso succede il contrario, si muove a compartimenti stagni, ma a noi piace la confusione creativa. Cerchiamo chi si sente fuori posto, chi ha voglia di vedere qualcosa che non è già stato visto o spiegato. Il nostro dialogo con la città è fluido: cerchiamo un ascolto vero, non solo un’audience.
SPAZIO PUNCH E VENEZIA
Quanto conta per voi l’impatto che uno spazio culturale può avere nel territorio in cui è inserito?
Lo spazio nel territorio può contare tantissimo. È bellissimo vedere gli adolescenti del quartiere venire a curiosare dentro le mostre, percepirle come un luogo davvero aperto. Anche uno spazio culturale, però, può diventare un danno per la comunità o per la città, quando toglie spazio all’artigianato o ai residenti solo per lucro. Quando non è in sintonia con la vita reale della città, arriva come una meteora e distrugge. Ultimamente sono arrivati tanti filantropi. Vediamo cosa faranno davvero per la città, i giovani e i residenti.
Che rapporto avete con lo spazio fisico e come influenza le scelte curatoriali?
Punch non è uno spazio semplice ed è proprio questo il punto. Ogni mostra si misura con quel corpo. Alcuni artisti lo capiscono subito, altri invece si scontrano con la realtà. Ma se la si accetta, diventa un alleato.
In tutti questi anni posso dire che non c’è stato un allestimento uguale a un altro, ogni mostra varia. Per noi è sempre stato fondamentale lavorare con dei designer per il setup; nel caso delle due mostre Alien Couch o Penisola abbiamo coinvolto il duo designer Zaven Enrica Cavarzan e Marco Zavagno, che hanno lo studio a Venezia. La mostra Garage Dallegret (18 maggio – 30 novembre 2023) è stata realizzata con Supervoid ‒ Marco Provinciali e Benjamin Gallegos Gabilondo ‒ di Roma.
Penso che queste nuove professionalità capaci di creare dispositivi multimediali siano fondamentali per dare nuove dimensioni al linguaggio delle mostre.
Nel concreto, come si struttura un progetto a Punch? Dall’ideazione alla realizzazione: quali sono i passaggi, le figure coinvolte, i tempi e gli strumenti che utilizzate per costruire una mostra o un evento?
Tutto parte da un’idea, da ciò che sentiamo il bisogno di raccontare in quel momento. Come si può intuire dal nostro programma, questa idea è in costante evoluzione. Viene discussa internamente, messa in dubbio e affinata. Alessia Prati, vibe researcher, si occupa di analizzare il tema che intendiamo affrontare, osservandolo dall’esterno per intercettare altre sensibilità, altre direzioni da esplorare.
Successivamente, l’idea viene condivisa con una rete di persone ‒ una comunità di complicità variabili ‒ vicine a Punch. Serve a capire se ha senso proseguire, se il progetto ha risonanza. Solo dopo attiviamo chi si occuperà della grafica. Per dieci anni abbiamo lavorato con Metodo Studio di Paolo Palma, che ci ha dato forza e struttura. Più recentemente abbiamo collaborato con Federico Antonini, Alessandro Gori e Alessandro Antonuccio (HStudio). Ognuno ha portato visioni e strumenti differenti. Quando il progetto prende forma, entra in gioco il setup e tutte le problematiche tecniche e logistiche, di cui si occupa Marta Girardin, project coordinator dello spazio, che segue ogni fase fino alla realizzazione.
In generale, non esiste un team fisso: ogni mostra ha il suo ritmo, il suo tempo, la sua squadra. Gli strumenti? Tutti quelli necessari. Anche il caso.
Paola Caudullo
















