Abbiamo conosciuto Bogdan Koshevoy durante uno studio visit a Venezia, sull’isola della Giudecca. L’artista ci ha accolto nel suo luminoso atelier, che condivide con la compagna e pittrice Daria Dmytrenko.
Nato nel 1993 a Dnipropetrovsk, in Ucraina, Bogdan Koshevoy vive e lavora a Venezia. Nei suoi dipinti il paesaggio, caratterizzato da atmosfere romantico-gotiche, ospita architetture dimenticate, nel solco di reminiscenze visive frutto delle più profonde fascinazioni e malinconie del loro autore. Luoghi indefiniti, sospesi tra incanto e mistero, abitati da creature silenziose e storie raccontate attraverso il gesto dell’artista.
INTERVISTA A BOGDAN KOSHEVOY
Nei titoli delle tue opere ci sono spesso rimandi alla tua terra d’origine. Che rapporto hai con le tue radici?
Quando studiavo in Accademia a Venezia, maturando la mia ricerca artistica ho cercato di chiarire a me stesso quali fossero le cose che mi interessavano davvero, che mi attraevano anche inspiegabilmente. Mi sono reso conto che ero particolarmente affascinato dalle architetture di fine Ottocento, con uno stile industrial, molto presenti nel luogo in cui sono cresciuto.
C’è un legame affettivo, oltre che visivo, con questo tipo di architetture?
Non sono solo le architetture a determinare il legame con la mia terra, ma influiscono alcuni elementi come l’atmosfera che si crea attorno a loro, le singolari suggestioni che nascono da questa visione. Sono una serie di dettagli che conosco bene.
L’artista trova dei punti di riferimento e, quando è in crisi, in assenza di idee nuove, si aggrappa a qualcosa che conosce bene, scavando dentro di sé, soffermandosi sulla profondità dei soggetti già noti.
Nella tua produzione non ho trovato ritratti o studi del corpo umano, ma è il paesaggio a essere protagonista. Gli individui, se presenti, lo sono in dimensione ridotta rispetto alla maestosità del contesto. Per quale motivo non hai indagato questo soggetto da vicino?
In realtà, quando sono arrivato in Accademia a Venezia, inizialmente ho realizzato molti ritratti, il paesaggio è comparso dopo. Sono giunto al paesaggio perché con esso posso costruire molto di più. È molto più psicologico realizzare un ritratto, nel caso del paesaggio, invece, ci sono già degli elementi: come in una natura morta, ci saranno diversi elementi che puoi mettere in relazione. Ciò mi ha permesso di costruire un dialogo all’interno dell’opera, è questo ciò che mi piace fare, cercare un equilibrio sottile tra tutti questi elementi, sia figurativi sia astratti, come nel caso dei colori. Il paesaggio mi permette di esplorare, di costruire qualcosa di mio.
IL PROCESSO CREATIVO DI BOGDAN KOSHEVOY
Nelle tue opere emergono atmosfere sospese, conturbanti, al limite tra reale e irreale. Quelle che ritrai sono suggestioni vissute in prima persona o fanno parte della tua sfera onirica?
Dipende, in alcuni casi si tratta di ambientazioni che immagino, altre volte scatto delle foto e le uso come riferimento. In questo caso c’è una storia dietro quei luoghi, lo puoi notare guardando le mie opere, ci sono scenari che ti convincono di più, che sono più reali, percepisci la mia relazione con quello spazio.
Perché hai scelto la torre come elemento centrale di molte tue opere?
Nella zona in cui sono cresciuto gli edifici sono stati costruiti nel Settecento/Ottocento, prima era tutta steppa. Da piccolo notai una torre abbandonata in stile medievale molto vicina a casa dei miei nonni e ne rimasi subito affascinato. Essa appariva come un elemento un po’ insolito rispetto al resto. Inoltre, era chiusa, non accessibile. Credo ci siano una serie di sfumature di significati che mi legano alla figura della torre: l’isolamento, la difesa, il fatto di poter vedere le cose dall’alto. Esistono una serie di dettagli su cui non mi sono soffermato spesso, relativi alla mia percezione di questa architettura, come il fatto che fosse molto alta, che mi intimidiva e al contempo mi incuriosiva. C’è del mistero anche per me in ciò che realizzo, in ogni lavoro che faccio influisce come mi sento in quel momento, è un ragionare sulle esperienze che ho fatto, ricordi di frammenti del passato.
Crei soprattutto opere pittoriche, ma lungo la tua carriera hai realizzato anche alcune sculture. Perché hai integrato questo medium? Desideravi sperimentare nuove tecniche e nuovi materiali?
Nel corso degli anni ho sempre fatto scultura, ma sporadicamente. A marzo 2024, in occasione di una mostra personale presso la Barvinskyi Gallery di Vienna, durante la fase di allestimento, mi sono reso conto che nello spazio che divideva le due sale c’era un grande vuoto, per cui ho pensato di introdurre un elemento immersivo, qualcosa che non fosse pittura. Ragionavo su come poter trovare un giusto equilibrio tra gli spazi, inserendo qualcosa che connettesse i due ambienti.
Le sculture esposte in occasione della mostra viennese rimandano alla struttura di un elmo. Come si relazionano con le opere pittoriche?
Ho creato diversi elmi, ho pensato potesse essere interessante prendere un elemento all’interno di un’opera pittorica e realizzarlo a tutto tondo.
Quali materiali hai utilizzato per le tue opere scultoree?
I prototipi sono stati prodotti in carta pesta, mentre le opere esposte nella mostra personale del 2024 sono realizzate in ceramica, cotta e poi smaltata.
BOGDAN KOSHEVOY E IL MONDO DELL’ARTE
Quali sono state le esperienze più significative lungo il tuo percorso artistico?
Ho fatto alcune cose importanti e diverse, che mi hanno insegnato tanto. La residenza alla Bevilacqua La Masa, nonostante fosse un periodo difficile per me, è stata rilevante. I workshop tenuti a Forte Marghera sono stati significativi, mi hanno fatto capire tante cose. Era uno spazio verde, c’era un clima di grande scambio tra gli artisti, è stato molto stimolante. Anche la residenza artistica a Dolomiti Contemporanee è stata un’esperienza positiva, ho conosciuto diversi artisti, mi sono trovato immerso nella natura e attorno a me si muoveva una bella comunità.
Quali sono le figure che gravitano all’interno del sistema dell’arte con cui hai trovato maggior affinità?
Per prima cosa gli artisti, ma ho lavorato anche con alcuni curatori, in particolare con una giovane curatrice, Eleonora Ghedini: tra noi c’è stato un dialogo intenso, è stato interessante vedere come lei abbia rielaborato svariati concetti, riuscendo a chiarire anche a me stesso alcune cose.
Giada Bartolini




