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Fino al 29 giugno 2025 Palazzo Roverella ospita la mostra “Hammershøi e i pittori del silenzio tra il Nord Europa e l’Italia”. Nel cuore di Rovigo, un corpus di opere del pittore danese descrive la sua poetica in un percorso intimo e silenzioso fatto di interni, ritratti e paesaggi.
Atmosfere sospese in un tempo congelato dai toni grigi, terrosi e perlati. L’occhio del visitatore vaga alla ricerca di un appiglio, trovando il vuoto: solo silenzio, solitudine e ombre.
A distanza di quasi un secolo da quando una sua opera venne esposta alla Biennale di Venezia nel 1932, le opere di Vilhelm Hammershøi (Copenaghen, 1864-1916) tornano in Italia nel solco di un omaggio al pittore danese a lungo dimenticato e da poco riscoperto a livello internazionale.
Grazie all’iniziativa del curatore Paolo Bolpagni, alla collaborazione del Comune di Rovigo e dell’Accademia dei Concordi, è stato possibile riunire un corpus di circa cento opere, quattordici delle quali firmate dall’artista e poste in dialogo con quelle di altri pittori europei, che condividono con lui la poetica del silenzio.
VILHELM HAMMERSHØI IN MOSTRA A ROVIGO
Il percorso espositivo si fonde con quello artistico del giovane Hammershøi, che iniziò a disegnare all’età di otto anni per poi appassionarsi di pittura. Venendo da una famiglia alto-borghese, godette di un’ottima formazione sin dall’infanzia, con maestri privati dal calibro di Niels Christian Kierkegaard e Holger Grønvold, per poi iscriversi nel 1879 all’Accademia Reale Danese di Belle Arti e frequentare i corsi di Frederik Vermehren. La prima opera che si incontra, legata al periodo di formazione presso la Scuola di studio indipendente per artisti, seguito da Peder Severin Krøyer, è Studio di nudo maschile visto di spalle (1884 circa). Questo carboncino rivela la precoce capacità di Hammershøi di descrivere i corpi realisticamente e, soprattutto, di preferire un soggetto di spalle ‒ tema che lo trasformerà nel precursore di questa tipologia di ritratti. Per completare la sua formazione, nel 1887 compie un viaggio nei Paesi Bassi, sulle tracce dei grandi maestri olandesi e fiamminghi del Seicento. Da essi assimila l’approccio introspettivo, i colori terrosi e la scelta dei soggetti: interni domestici, donne in lettura e incomunicabilità fra i personaggi.
LE OPERE DI VILHELM HAMMERSHØI
Da qui si apre, in modo conseguente e lineare, una seconda sezione dedicata proprio agli interni domestici privi di presenze umane, che l’artista comincia a dipingere intorno al 1898, quando si trasferisce con la moglie Ida Ilsted nel quartiere di Christianshavn a Copenaghen. La sua casa, ubicata al civico 30 di Strandgade, diventa il suo soggetto prediletto, di cui dipinge in modo austero le pareti quasi completamente spoglie. In questa fase Hammershøi getta le basi di una poetica caratterizzata da vuoto e luce, assenza di movimento e atmosfere inquiete, che ben si sposano con la sua natura di uomo schivo e solitario, segnato da un matrimonio travagliato. Capolavoro di questo periodo è l’opera Luce del sole nel salotto III (1903): da una finestra nascosta all’occhio di chi guarda entra una luce fredda, che illumina fiocamente un interno buio, composto da pochi elementi essenziali, solidi nella loro compostezza, tutto rigorosamente contraddistinto dai toni neutri. Molti artisti europei trarranno spunto da questo modo di dipingere – come evidenziato dalle opere in mostra –, senza però riuscire a far trasparire lo stesso sentimento di tensione, sospensione e inquietudine. A Rovigo viene proposto anche un interessante parallelismo con Gertrud (1964), un film prodotto dal cineasta danese Carl Theodor Dreyer, i cui ambienti e le dinamiche fra i personaggi sembrano citazioni dirette delle opere di Hammershøi.
Si sviluppa poi una ulteriore sezione di confronto, con opere di artisti coevi come Carl Holsøe, Georges Le Brun, Oscar Ghiglia e Tyra Kleen, in cui si nota un’evoluzione: l’aggiunta alle scevre scene d’interni di un soggetto umano. La presenza umana, pur figurando, è sempre qualcosa di sfuggente e genera angoscia, mistero e sospetto in chi osserva. Questo aspetto ben si evince dall’opera Interno, Strandgade 30 (1902), in cui appare Ida, la moglie dell’artista, intenta nelle pulizie quotidiane e ritratta all’interno di una stanza delineata da geometrie claustrofobiche.
La sezione dedicata alla ritrattistica è illuminante. Hammershøi, infatti, ritraeva volentieri soltanto le persone che conosceva meglio, convinto che solo così il risultato fosse più soddisfacente. Emblematico è Doppio ritratto dell’artista e della moglie visti attraverso uno specchio (1911), in cui il pittore si ritrae frontalmente rispetto allo spettatore, con in mano la tavolozza, mentre la moglie è in piedi di spalle, appoggiata a una porta-finestra. Fra i due c’è distanza, nessun dialogo, solo silenzio e accettazione. Da segnalare anche un’opera datata 1902, unica testimonianza dell’itinerario compiuto nel Bel Paese. Si tratta di una veduta interna della chiesa di Santo Stefano Rotondo al Celio a Roma, che definisce l’interesse dell’artista nei confronti delle vestigia antiche. L’atmosfera resta onirica, la luce soffusa sembra collocare l’architettura in un altro mondo.
VILHELM HAMMERSHØI E I SUOI COLLEGHI
Le sezioni finali, che esauriscono via via le opere di Hammershøi dando immoderatamente spazio a quelle dei colleghi, vogliono essere un omaggio alla pittura di paesaggio tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Gli insegnamenti del maestro danese vengono differentemente sviluppati nei lavori di grandi artisti nordeuropei e mediterranei, come quelli, fra gli innumerevoli altri, dei belgi Fernand Khnopff e William Degouve de Nuncques e del francese di origine svizzera Eugène Grasset, che ritraggono città dalle atmosfere inanimate, silenti e oniriche. Il tutto confluisce in maniera un po’ difficoltosa nell’ultima sezione della mostra incentrata sui “paesaggi dell’anima”, realizzati in larga parte da artisti italiani come Umberto Prencipe, Umberto Maggioli ed Enrico Coleman, che danno forma a paesaggi campestri pregni di malinconia e solitudine. L’ultima sala accoglie il tributo che il fotografo spagnolo contemporaneo Andrés Gallego ha voluto fare al pittore danese, rielaborandone lo sguardo e rimettendone in scena fedelmente ambienti e atmosfere attraverso il suo obiettivo.
La mostra a Palazzo Roverella non solo riporta in auge le opere ‒ per molto tempo dimenticate ‒ di uno dei più grandi maestri danesi del suo tempo, ma crea anche una serie di parallelismi con il lavoro di altri artisti che a lui si ispireranno. Il focus principale resta comunque sulla produzione di Hammershøi , raccontandone la formazione, i viaggi e l’eredità artistica. Un’arte che necessita di contemplazione, calma e lentezza: elementi che vanno sempre più scomparendo nella caotica società odierna, ma che Hammershøi ci ricorda di tenere a mente.
Laura Ferrone





