Il proliferare della retorica decoloniale nel mercato dell’arte occidentale rischia di svuotare il senso politico delle azioni volte alla decolonizzazione. In questo scenario, l’iniziativa palestinese Owneh propone un approccio diverso: non tematizza la decolonialità, ma la esercita attraverso pratiche infrastrutturali di solidarietà e autodeterminazione.
Negli ultimi decenni il linguaggio dell’arte contemporanea si è arricchito del termine “decoloniale” per indicare una riflessione critica su tutte le istituzioni, comprese quelle culturali, che hanno rafforzato la retorica coloniale. Mostre, rivisitazioni delle collezioni museali, open call, residenze, talk, biennali fanno della decolonizzazione il tema principale dei propri contenuti, tuttavia visitatori e lettori devono saper distinguere quando si tratta di semplice retorica e quando invece di azioni volte a cambiare radicalmente le gerarchie e il sistema.

DAL LINGUAGGIO ALLA STRUTTURA: IL PARADOSSO DELLA DECOLONIALITÀ
Innanzitutto, è utile fare una distinzione tra postcoloniale e decoloniale. Gli studi postcoloniali nascono dopo la fine del colonialismo e ne analizzano l’impatto e l’eredità politica, economica, culturale e identitaria sui paesi colonizzati. L’approccio decoloniale mira a essere, oltre che critico-riflessivo, soprattutto attivo: ovvero punta alla creazione di narrazioni autonome, autodeterminanti, di quei popoli storicamente sottomessi dall’Occidente.
Il grande paradosso è che molte istituzioni d’arte occidentali adottano questo termine in maniera discorsiva e non strutturale: se cioè da una parte il linguaggio si aggiorna con termini come “inclusività”, “decostruzione”, “care”, permangono delle criticità importanti. Restano, soprattutto, la dipendenza da finanziamenti occidentali ‒ banche, enti statali, multinazionali ‒ e un dispositivo curatoriale verticale: l’Occidente continua a mantenere il potere decisionale su cosa rappresentare, perpetuando dinamiche di rappresentazione dell’“altro”, mantenendo così il controllo del racconto.
In questo modo anche opere nate in contesti radicali vengono assorbite dal sistema come estetiche del disagio, trasformando il dissenso in valore simbolico e commerciale. Così, anche qualora un’opera mantenga un messaggio politico, esso viene inglobato da istituzioni che si dicono progressiste, convertendolo in capitale culturale e continuando a operare con logiche estrattive, coloniali. La disuguaglianza non solo rimane, ma viene mascherata da un linguaggio virtuoso, travestita da inclusione e infine estetizzata in nome di un “profitto etico”.
L’estetica decoloniale non può essere spettacolo: dovrebbe essere una pratica di cura.
Sarebbe davvero decoloniale lasciare libero arbitrio ‒ su come e se mostrarsi ‒ ai popoli che sono stati vittime di colonialismo e imperialismo. Ciò riguarda tanto gli artisti quanto i curatori. Sarebbe necessario non tematizzare la decolonialità, ma trasformare la struttura della produzione culturale.
OWNEH: LA CURATELA COME INFRASTRUTTURA
Il progetto Owneh incarna esattamente questa logica. Si tratta di un’iniziativa di trenta organizzazioni della società civile palestinese, formatasi in seguito al 7 ottobre 2023 e al conseguente genocidio accelerato perpetrato a Gaza. I principi che hanno portato alla costituzione di questa iniziativa riguardano il rifiuto dei sistemi di finanziamento globali basati sullo sfruttamento storico che hanno prolungato l’occupazione in Palestina; il rifiuto dei finanziamenti politicamente condizionati che impongono restrizioni geografiche e limitazioni operative e l’impegno a rafforzare le risorse, il volontariato e la solidarietà palestinesi.

La missione non è solo economica, è curatoriale nel senso più ampio e radicale del termine. Creando un Solidarity Fund, un Resources Basket e una piattaforma AID Watch di monitoraggio dei meccanismi di donazioni, Owneh pratica una riappropriazione degli strumenti di produzione e distribuzione culturale. Oltre il 60% degli attuali firmatari dell’iniziativa, infatti, sono organizzazioni artistiche e culturali, di cui una buona parte operano nel campo visivo, della performance o della community art. L’obiettivo primario non è produrre o mostrare opere, ma curare un contesto, restituendo al gesto curatoriale la sua dimensione politica, collettiva e infrastrutturale.
Fino a ora, la Owneh Initiative, attraverso la campagna Solidarity Prints for Palestine, ha raccolto circa ventimila dollari destinati al Solidarity Found, creato per sostenere le organizzazioni palestinesi attive in arte e cultura che rifiutano donazioni condizionate e la realizzazione di laboratori psico-sociali che utilizzano le arti per aiutare adulti e bambini colpiti dal trauma del genocidio.
In un sistema artistico basato su logiche di potere e profitto, Owneh emerge come un monito e un modello infrastrutturale e curatoriale alternativo, effettivamente decoloniale. Ci invita a ragionare, come visitatori e come operatori culturali, su quanto le nostre pratiche, persino quelle artistiche, sono davvero libere da logiche di mercato, finanziamenti condizionati, rappresentazione predatoria.
La decolonialità non si annuncia, si pratica, nel lavoro lento di ridistribuire potere, risorse e possibilità.
Alice Longo












