Il 2026 sarà l’ultimo anno del secondo mandato di Lorenzo Balbi come direttore del MAMbo di Bologna. Con questa intervista abbiamo messo a fuoco le tappe principali della sua direzione, dalle sperimentazioni istituzionali alle urgenze socio-politiche che oggi attraversano il sistema dell’arte.
La proposta artistico-culturale è una componente fondamentale del carattere distintivo ‒ a livello nazionale e internazionale ‒ di Bologna. Da nove anni è proprio Lorenzo Balbi (Torino, 1982) a gestire la programmazione di ben tredici musei civici cittadini e la direzione di sei spazi istituzionali: MAMbo, Museo Morandi, Casa Morandi, Villa delle Rose, Museo per la Memoria di Ustica e Residenza per artisti Sandra Natali. Abbiamo ripercorso insieme a lui alcune tappe decisive del suo percorso, riflettendo sulle responsabilità del museo contemporaneo e sulle sfide che attendono chi oggi opera nella cultura.

L’INTERVISTA A LORENZO BALBI
Dal 2017 sei Responsabile dell’Area Arte Moderna e Contemporanea del Settore Musei Civici di Bologna e direttore artistico del MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna. Dal 2018 gestisci anche la direzione artistica di ART CITY BOLOGNA e nel 2020 hai insegnato al master AMaC (Arts, Museology and Curatorship) del DAMS e dal 2021 insegni Strumenti e Competenze per la Pratica Artistica all’Accademia di Belle Arti. Bologna sembra essere non solo la sede del tuo lavoro, ma un interlocutore attivo della tua progettualità. Cosa rappresenta per te questa città?
Per me Bologna è molto più di una sede lavorativa: è un interlocutore vivo, un contesto che sollecita e orienta ogni scelta progettuale. Penso che il ruolo di direttore artistico di un museo pubblico vada ben al di là della gestione di uno spazio espositivo. Significa essere parte di una comunità, intercettarne le istanze, catalizzare energie, diventare un’antenna sensibile del territorio. Bologna, con la sua storia culturale, le sue istituzioni e la sua dimensione civile, mi ha permesso di intendere il museo come un organismo poroso, capace di dialogare continuamente con la città e di cercare di restituirne complessità e vitalità.
In un’intervista su ProfessioneARTE, a proposito del ruolo di direttore museale contemporaneo, hai detto che oggi è importante essere aggregatori di più istanze. Nella tua esperienza, quale collaborazione ‒ con un artista, una comunità o un archivio ‒ è stata particolarmente significativa?
Tra tutte le esperienze che ho avuto la fortuna di sviluppare, quella del Nuovo Forno del Pane è stata la più radicale. Durante la pandemia abbiamo ridefinito il museo come centro di produzione e luogo di comunità, offrendo agli artisti uno spazio per lavorare, incontrarsi, ricostruire insieme una massa critica. L’eredità di quel progetto è proseguita con l’edizione Outdoor, in cui il museo si è fatto attivatore di una rete di centri di produzione artistica diffusi sul territorio. È stata la dimostrazione concreta che un museo pubblico può trasformare la propria identità e il proprio ruolo in risposta ai bisogni reali del momento storico.

MEMORIE, ARCHIVI E PRATICHE CRITICHE NEL PRESENTE
La Project Room è uno spazio espositivo all’interno del MAMbo che, sotto la tua direzione, ha assunto una funzione precisa, accogliendo ricerca, memoria locale, archivi, artisti emergenti o figure storiche poco note. Quale ruolo occupa rispetto alla programmazione generale del museo?
Di tutte le esperienze curate al MAMbo in questi nove anni, la Project Room è quella di cui vado più fiero. Ho voluto destinare uno spazio – sottratto al percorso della collezione permanente – alla ricerca storica e d’archivio su Bologna e l’Emilia-Romagna. L’obiettivo era offrire al pubblico, composto per quasi il 60% da visitatori internazionali, uno sguardo sulle storie, i luoghi, gli avvenimenti e le persone che hanno plasmato la coscienza collettiva del territorio. All’inizio non era chiaro a tutti cosa volessimo fare: ricevevo molte proposte di personali da parte di artisti locali. Ma la coerenza e la continuità della programmazione hanno reso evidente la direzione. Oggi molti si riconoscono in quello spazio, vi ritrovano frammenti di esperienze vissute, mentre chi non c’era può entrare in contatto con una tradizione che dà senso alle nostre scelte museali contemporanee.
Tra i punti programmatici del tuo secondo mandato al MAMbo hai parlato di decolonizzazione. Quale ritieni sia il modo migliore per agire, in questa prospettiva, in maniera radicale?
Credo che un museo possa agire in senso decoloniale non nascondendo gli oggetti, ma attivandoli per generare nuovi significati. La mostra The Floating Collection, che ho co-curato con Caterina Molteni, è nata proprio da questo principio. Abbiamo invitato artisti e artiste internazionali a costruire una collezione “fluttuante” a partire da un’esperienza diretta con le collezioni cittadine. Un approccio che non riscrive la storia, ma la mette in tensione con il presente, creando narrazioni plurali e condivise.
LE SFIDE FUTURE SECONDO LORENZO BALBI
Il tuo lavoro si può descrivere come un dispositivo che intreccia opere e contesto, istituzione e comunità, artisti e città, in grado di captare esigenze e direzioni. Se dovessi indicare un’urgenza socio-politica che il museo deve assumere nei prossimi anni, quale sarebbe?
Negli ultimi anni ci siamo confrontati con temi fondamentali: genere, provenienza, religione, decolonizzazione, sostenibilità, post-digitale, intelligenze artificiali. Credo che la nuova urgenza riguardi l’accesso alle professioni artistiche. Oggi diventare artista o curatore è ancora possibile soprattutto per chi proviene da contesti economicamente privilegiati. Questo non è più sostenibile. I musei, insieme al sistema dell’arte, devono assumersi la responsabilità di affrontare questo squilibrio, creando strumenti, percorsi e opportunità che permettano a talenti non avvantaggiati di emergere e crescere.
Sotto la tua direzione, ART CITY ‒ evento d’arte contemporanea che si svolge in varie sedi di Bologna in concomitanza con ArteFiera ‒ ha guadagnato sempre più visibilità. Guardando al futuro, quale zona della città ti piacerebbe trasformare nel prossimo grande spazio di attivazione artistica?
Da quando ne ho assunto la direzione artistica, ART CITY ha attraversato diverse fasi: dagli eventi speciali con grandi artisti internazionali – da Tino Sehgal a Gregor Schneider, da Zakharov a Castellucci – a un progetto sempre più radicato nel territorio e capace di raccontarlo attraverso l’arte contemporanea. Dopo aver lavorato sui luoghi morandiani e sulle dieci Porte storiche della città, nel 2026 apriremo al pubblico alcuni eccezionali luoghi legati all’Università di Bologna, la più antica del mondo occidentale fondata nel 1088, e stiamo già immaginando un progetto molto ambizioso per il 2027. L’obiettivo rimane lo stesso: trasformare ogni volta una parte diversa della città in un grande campo di attivazione artistica, facendo emergere identità, memorie e possibilità che forse non avevamo ancora guardato abbastanza.

Nell’arco della tua carriera hai dimostrato di ricercare un equilibrio tra produzione e responsabilità etica. Come coniughi l’urgenza di sostenere la produzione contemporanea con la necessità di evitare la sovrapproduzione culturale?
Durante la pandemia ci siamo chiesti se i modelli della mostra e della fiera fossero arrivati alla fine. I fatti hanno mostrato il contrario: non solo sono tornati, ma il consumo culturale si è intensificato. Credo che i musei debbano assumersi la responsabilità di riflettere su questa accelerazione: evitare produzioni effimere, scegliere di lavorare su tempi più lunghi, dare priorità alla profondità rispetto alla quantità, ridurre sprechi e allestimenti temporanei.
I musei devono tornare a essere presidi di complessità: luoghi che coltivano senso, non solo eventi.
Dopo anni di incarichi istituzionali, ti manca mai la postura del curatore indipendente che permette di agire senza i vincoli di un museo pubblico?
Ho fatto il curatore – sempre all’interno di istituzioni – per molti anni, e oggi sono felice del ruolo che ricopro. Non lo vivo come un allontanamento dalla curatela, ma come un suo ampliamento: la mia funzione è dare una linea scientifica e strategica all’istituzione, mentre la ricerca quotidiana sugli artisti e sui progetti spetta ai curatori interni ed esterni con cui collaboro. Sono loro a potersi dedicare con continuità all’indagine del presente.
A me questo lavoro piace profondamente, mi stimola ogni giorno, e sento di avere ancora molto da dire. E credo anche che potrei portare questa esperienza in contesti istituzionali differenti, geografici e culturali, continuando a misurarmi con nuove sfide. Non mi manca niente del passato: è il presente, con le sue responsabilità, a motivarmi davvero.
Alice Longo



