Giovane artista che utilizza il medium fotografico per riscoprire e interpretare la natura, alla ricerca della fede perduta, Eleonora Busato racconta i temi e le dinamiche che caratterizzano il suo lavoro.
Eleonora Busato nasce nel 1999 a Vicenza, dove trascorre l’infanzia immersa nella natura della campagna veneta. Si trasferisce a Parigi per conseguire una laurea triennale in Storia dell’Arte e Archeologia presso l’Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne e una magistrale in Fotografia presso l’Université Paris 8.
Tra il 2022 e il 2024 partecipa a diverse esposizioni collettive e personali sia in Francia che in Italia e si cimenta anche nell’ambito curatoriale.
L’abbiamo incontrata durante uno studio visit presso uno degli l’atelier della Fondazione Bevilacqua La Masa sull’isola della Giudecca a Venezia. A colpire è la sua passione nel raccontarsi, nel parlare della fotografia e del suo amore per la natura, come si intuisce dagli scatti in bianco e nero e dalle cianotipie esposti sulle pareti dello studio. La ricerca di Busato, iniziata con il progetto di tesi, esplora lo spirituale attraverso la pratica fotografica, servendosi della natura come punto di partenza nella riscoperta di Dio. Approccio documentario e indagine poetica si incontrano e si fondono, generando immagini cariche di mistero e spiritualità.
LA FOTOGRAFA ELEONORA BUSATO
Puoi raccontarci il tuo percorso di studi e di come questo abbia influito sulla tua ricerca artistica?
Ho svolto la quasi totalità del mio percorso accademico in Francia, conciliando studi teorici e studi pratici. I miei anni di triennale in Storia dell’Arte alla Sorbona mi hanno influenzata sicuramente a livello didattico abituandomi alla scrittura, alla critica, alle fondamenta della storia dell’arte e a una comprensione globale delle istituzioni artistiche. Sono delle basi solide, a partire dalle quali ho incominciato a tracciare il mio percorso di ricerca e creazione.
Dalla Sorbona mi sono spostata all’Università Paris 8, per compiere studi pratici e teorici specifici sulla fotografia. Gli anni di Paris 8 sono stati un eccezionale momento di scoperta. Ho avuto la libertà di confrontarmi con una varietà di approcci e di strumenti diversi, di capire man mano quali soggetti e quali metodologie di lavoro mi si addicevano di più.
Il corso di studi magistrale mi ha iniziata, nello specifico, allo svolgimento di una doppia ricerca, parallela e complementare, teorica e pratica. È un tipo di approccio che nel mio caso si è dimostrato molto efficace. Le ore passate in biblioteca si equilibrano con quelle trascorse in laboratorio, la storia e la teoria della fotografia diventano una rassicurazione, una mappa da consultare nel momento in cui si vuole creare qualcosa di proprio, per contestualizzarlo, per non sentirsi perdute.
Cosa ti ha spinto a scegliere la fotografia come tuo principale medium di espressione? Come ti approcci a esso?
Tra una moltitudine di medium, sin da bambina ho sentito una predisposizione particolare verso la fotografia. Nel tempo si è confermata come una pratica in grado di meravigliarmi. L’immagine fotografica spesso mi provoca un senso di meraviglia, perché dipende da un meccanismo che talvolta mi sembra quasi magico, per via di come si rapporta alla realtà tangibile. In questo modo mi pare di avere tra le mani uno strumento prodigioso! Mi sembra, grazie a esso, di poter fare esperienza di alcuni principi fondamentali della nostra esistenza: la luce, il tempo, la materia.
Spesso mi sono chiesta: “Perché fotografare?”. Credo che nel mio caso la risposta possa girare attorno al desiderio di determinare una connessione con qualcosa di speciale. Penso inoltre che la fotografia possa veramente essere una pratica di riconciliazione nei confronti di una moltitudine di sfere che ci riguardano, a partire da quella sociale fino ad arrivare a quella geografica.
C’è qualche fotografo a cui ti senti particolarmente affine o da cui trai ispirazione?
Ce ne sono una quantità! Come dicevo, mi piace molto costruire i miei discorsi e lavori sulla base di un’osservazione delle esperienze e dei risultati artistici di coloro che sono venuti e venute prima di me. Ci sono delle opere che mi toccano, che mi commuovono particolarmente, dove ho individuato quelle che per me sono delle verità espressive e umane. Penso al lavoro di Sally Mann, Robert Adams, Minor White, Emmet Gowin, Alessandra Sanguinetti.
Quali tecniche fotografiche utilizzi in questo momento e quali invece ti piacerebbe sperimentare?
Al momento sto scattando molto in bianco e nero analogico e sto lavorando con la stampa cianotipica. Mi piacerebbe sperimentare con la stampa ad antotipia, che sfrutta la fotosensibilità di piante e fiori.
I PROGETTI DI ELEONORA BUSATO
La ricerca di Dio esplorata attraverso il mezzo fotografico ha dato vita a Looking for God, un’impresa poetica e paradossale in cui tenti di catturare con un’istantanea qualcosa che i nostri sensi non riescono a percepire. Credi di esserci riuscita? Ripercorreresti i passaggi di questo processo?
Credo di essere riuscita a restituire fotograficamente un’esperienza che è stata in verità particolarmente sensibile, nel senso di molto legata ai miei sensi. È stato un po’ come realizzare delle immagini che sono, come diceva Alfred Stieglitz, degli “equivalenti” di ciò che provavo emotivamente, in un contesto tuttavia molto concreto. Un vero e proprio gioco di corrispondenze tra mondo interiore e mondo esteriore. Forse quello che talvolta non riusciamo a fare non è tanto il percepire, quanto piuttosto lo spiegare, l’interpretare queste reciprocità.
Per realizzare Looking for God andavo sostanzialmente “alla ricerca di Dio” ripercorrendo la stessa strada più e più volte: quella tra la chiesa del mio paese lungo gli argini del fiume, che conducono alla casa della Beata. Il paesaggio, con tutti i suoi elementi e personaggi, è stato il territorio d’incontro fra la mia esperienza personale e un’universalità di simboli e riferimenti geografici e culturali. In tutto ciò l’immagine fotografica è diventata il supporto di una rivelazione miracolosa e documentaria, che si manifesta in questo caso nell’incanto di un discorso poetico che tratta di credenza, magia, natura, tradizione.
Infine ho inteso lo spirituale nella fotografia come un tentativo umano di relazionarsi e di comprendere i suoi propri contesti e i suoi misteri, attraverso i termini stessi della realtà tangibile: la fotografia può veicolare un messaggio e diventare uno strumento di speranza.
Perché, dopo essere partita, hai sentito l’esigenza di tornare a casa tua per ricercare la fede che stavi pian piano abbandonando?
Molto banalmente sono tornata a cercare Dio dove lo avevo visto l’ultima volta, ho ripercorso la strada al contrario, come si fa quando si perde qualcosa e la si vuole ritrovare.
Le Jardin d’Éden è il tuo ultimo progetto in fase di sviluppo. Ruota attorno al tema del giardino, ma è anche una ricerca permeata di altri argomenti a te cari e che ben vi si connettono quali spiritualità, cultura, territorio ed ecologia. Da dove nasce la volontà di prendere in esame questo spazio?
Sapevo di voler proseguire il mio lavoro a partire proprio dagli argomenti che hai citato, e mi serviva un appiglio, un’idea che determinasse il collegamento con una nuova fase di ricerca. Nelle mie letture ho individuato una ponderazione interessante che poneva il concetto di giardino sullo stesso piano del paesaggio, rendendoli di fatto dei santuari di verità. La parola paradiso deriva dal persiano e significa letteralmente “recinto murato”, delimitato: la sinossi, in un certo senso, di ciò che il fotografo vede attraverso il mirino ottico. Il giardino mi è sembrato allora un punto d’inizio estremamente interessante.
Durante lo studio visit hai menzionato spesso il testo di Robert Adams La bellezza in fotografia. Saggi in difesa dei valori tradizionali. Si può dire che abbia avuto un ruolo centrale nello sviluppo della tua ricerca attuale?
Assolutamente sì. È proprio lui che parla del giardino in tal senso. Ho studiato l’integralità del suo lavoro, fotografico e critico, e ho cominciato a fidarmi profondamente di esso. C’è qualcosa di estremamente confortante nella sua opera, si tratta per me di un riferimento e di una guida.
ELEONORA BUSATO, VENEZIA E IL FUTURO
Come sei arrivata a fare una residenza presso la Fondazione Bevilacqua La Masa? Perché hai scelto proprio Venezia per portare avanti i tuoi progetti?
Sono arrivata alla residenza a Venezia perché, per proseguire il mio lavoro, dovevo necessariamente trovarmi in prossimità del contesto geografico che desideravo studiare e rappresentare. Penso si tratti di uno dei contro (o dei pro) della fotografia, che talvolta ti sollecita fisicamente, anima e corpo. La Bevilacqua La Masa mi sembrava il quadro perfetto dove inserirmi, dove avere uno spazio e un confronto umano e istituzionale, mentre mi occupo del mio progetto fotografico nel territorio veneto.
Hai già partecipato a mostre o fiere? Se sì, curavi tu l’allestimento o ti facevi affiancare da un curatore?
Certamente, ho avuto modo di partecipare a numerose esposizioni. Mi sono occupata degli allestimenti sia in autonomia sia collaborando con curatori e curatrici.
Che cosa ti aspetti da un bravo curatore?
Mi aspetto, forse più di tutto, una certa curiosità: un’attitudine che escluda poi un risultato impersonale e freddo. Apprezzo inoltre quando un curatore o una curatrice ha delle buone capacità redazionali, di scrittura.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Sto cercando di pensare il mio percorso un passo alla volta. Per i mesi che vedo davanti a me la prospettiva è quella di approfondire e quindi padroneggiare le tecniche di stampa alle quali mi sono avvicinata, in particolare l’antotipia. Al di là di ciò non sto pensando troppo al futuro, il momento presente mi sta entusiasmando molto, non voglio perderlo di vista.
Laura Ferrone



