Angela Vettese ci offre uno sguardo approfondito sul suo metodo di lavoro e sulle trasformazioni del sistema dell’arte: una conversazione che attraversa più momenti storici tra memoria, presente e qualche consiglio per il futuro. Attraverso le lenti di una carriera dalle diverse sfaccettature (curatrice, critica, docente universitaria e scrittrice), Angela Vettese condivide la sua visione con chiarezza e con la forza di un’esperienza diretta e consolidata.
Critica d’arte, curatrice e autrice, Angela Vettese (Treviglio, 1959) ha sempre posto al centro del suo lavoro la fluidità del pensiero critico, valorizzando i continui cambiamenti del modo di intendere l’arte contemporanea e facendo da testimone ad alcuni cambiamenti storici della pratica artistica e curatoriale. Docente di ruolo presso l’Università IUAV di Venezia, insegna nel corso magistrale in Arti Visive, contribuendo alla formazione di nuove generazioni di curatori e artisti. Ha curato mostre per istituzioni di prestigio come la Galleria Civica di Modena – dove ha realizzato la prima personale di Yayoi Kusama in un museo italiano – e la Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia, collaborando con artisti del calibro di Ugo Rondinone, Richard Hamilton e Yoko Ono. Oltre all’attività curatoriale e didattica, ha svolto un’intensa produzione critica, scrivendo per testate come Il Sole 24 Ore e pubblicando saggi fondamentali sulla teoria della curatela e sull’evoluzione del sistema dell’arte contemporanea. La sua esperienza le permette di offrire uno sguardo acuto e disincantato sulle dinamiche culturali, sottolineando l’importanza di un approccio rigoroso e di una consapevolezza politica per chi vuole intraprendere questa professione. L’intervista nasce dall’incontro avvenuto durante la presentazione del recente restauro de La materia dell’ornamento, opera di Joseph Kosuth allestita sulla facciata della Fondazione Querini Stampalia di Venezia.
Nel corso della sua carriera, ha osservato tanti modi differenti di intendere la pratica curatoriale. Cosa crede che resti invariato in questo lavoro e cosa invece cambia con l’evolversi delle dinamiche culturali e istituzionali?
Ho visto la figura del curatore precisarsi e crescere, soprattutto sostituendo quella dei critici che, dal ruolo primario di commentatori e scrittori, si arrogavano anche quello di allestitori. Oggi un curatore sceglie un tema, lo sviluppa decidendo quali artisti invitare a una mostra, cura un allestimento o sceglie chi lo farà in accordo con lui, sceglie un editore e lo segue nella realizzazione del catalogo: sostanzialmente, svolge un lavoro che parte da un’idea teorica e si dipana in mille azioni pratiche. Non è una novità, perché grandi curatori sono stati gli artisti stessi delle Avanguardie, da Marcel Duchamp (Esposizione Internazionale del Surrealismo, 1938) a Robert Morris (9 at Leo Castelli, 1968) fino alle prime prove di Cattelan curatore (Wrong Gallery e Biennale di Berlino, 2006). E accanto a questo ci sono stati curatori seminali come Pontus Hultén, Kiynaston McShine, Harald Szeemann dagli anni Sessanta in poi. Oggi assistiamo a una trasformazione in canone di ciò che fu una rivoluzione dei ruoli: azioni come studio visit, space visit, allestimento con l’artista sono diventati passaggi obbligati, così come un certo modo di concepire gli apparati didattici (didascalie) e quelli informativi (catalogo, short guides) che risultano abbastanza ripetitivi nei curatori attivi ora.
L’INTERVISTA CON ANGELA VETTESE
Il curatore è spesso chiamato a tradurre il processo artistico in un formato espositivo o testuale. In cosa consiste la responsabilità della curatela? E quando, dal suo punto di vista, un lavoro curatoriale è davvero efficace?
Mi piace il lavoro curatoriale che riesce a valorizzare le opere, che dà loro spazio, che non si serve degli artisti solo per dare fiato a una visione del mondo che è quella del curatore.
Quali sono le difficoltà meno visibili del lavoro curatoriale, quelle di cui si parla meno ma che hanno un impatto reale sul processo di creazione di una mostra?
Il rapporto con gli artisti non è sempre facile, soprattutto se non hanno le idee chiare o se hanno smanie di protagonismo. Occorre molta pazienza, soprattutto nel creare sintonia tra gli artisti come persone e tra le loro opere come oggetti che definiscono il percorso della mostra.
LA CARRIERA DI ANGELA VETTESE
C’è una mostra o un progetto che ha curato che le sono rimasti particolarmente impressi non solo per il risultato finale, ma per il processo che ha vissuto nel realizzarli? Quali aspetti li hanno resi speciali o significativi per lei?
Premetto che non sono “soprattutto” una curatrice, anche perché ho poca pazienza nell’affrontare gli imprevisti. È stato bello curare le edizioni 1998 e 1999 della manifestazione Arte all’Arte con l’Associazione Arte Continua insieme a Florian Matzner (tra gli artisti Eliasson, Rehberger, Kosuth, Buren, Paolini, Erkmen, Theis, Paladino). Poi non ho più avuto molto tempo e soprattutto mi sono scoraggiata: due collettive a cui tenevo, il 52mo Premio Michetti che esponeva il tema delle due sponde dell’Adriatico in tempi di grande disparità, nonché la mostra Dire Aids alla Promotrice di Torino, si sono rivelate difficilissime per cadute di budget e rapporti con le istituzioni. Dal 2001 ho dedicato molto tempo all’Università e alla direzione di istituzioni, quindi ho curato quasi solo personali nei musei che ho diretto: ricordo con grande piacere le mostre di Yayoi Kusama alla Galleria Civica di Modena, la prima sua personale in Italia, sempre a Modena la personale di Ugo Rondinone con l’aiuto del suo compagno di allora, il poeta John Giorno che mi ha regalato momenti magici; e ancora la personale di Richard Hamilton alla Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia, con il coinvolgimento di sua moglie, suo figlio e tutto lo staff veneziano, con grande precisione, ma anche divertimento; e ancora le personali di Rebecca Horn, Yoko Ono, Peter Doig alla Bevilacqua di Venezia, Magdalena Abakanowicz alla Pomodoro di Milano. Tuttavia, non avrei avuto la forza di carattere per una mostra collettiva con duecento partecipanti. Ci vuole un fisico bestiale.
Nel mondo dell’arte contemporanea si parla molto di networking, di costruzione di relazioni professionali. Quanto è stato determinante per lei il rapporto con le persone? Ci sono incontri con curatori o artisti che hanno segnato in modo decisivo la sua esperienza?
Ci sono curatori che ammiro e che mi hanno insegnato molto anche solo osservandoli (per esempio Ute Meta Bauer e Marta Kuzma), sia coetanei che giovani. Dai grandi vecchi ho imparato meno, sono sempre stati molto gelosi del loro know-how e non si possono ripetere oggi le loro modalità operative.
ANGELA VETTESE E IL MONDO DELL’ARTE
Spesso si parla di carriera come un percorso lineare, ma la realtà è fatta di deviazioni, accelerazioni e pause. Guardando indietro, c’è qualcosa che rifarebbe, ma in modo diverso?
Credo che avrei dovuto continuare a dirigere musei, invece di dedicarmi all’Università. Ma non mi piace rivangare le occasioni lasciate andare. C’è poi anche un certo soffitto di cristallo: ogni volta che mi è stata proposta la direzione di un museo importante, ed è capitato almeno tre volte, sono stata scalzata da persone di pari valore ma con protezioni politiche abbastanza esplicite. Non ti danno un museo con un budget importante se non sei l’espressione di un partito o di un politico che ha il potere di importi.
Secondo la sua opinione, ha ancora senso oggi fare critica? Possiede ancora una funzione, sia in positivo che in negativo?
Io mi diverto a scrivere, ma mi definirei piuttosto una cronista. È una parte del mio lavoro che svolgo da sempre sui giornali e nei libri che scrivo. La critica non so nemmeno bene come definirla, e non credo di essere la sola.
Se dovesse condensare in un unico consiglio ciò che ha imparato nel suo percorso, cosa direbbe a chi oggi vuole intraprendere questa professione?
Direi che il grado di professionalità oggi richiesto è molto alto; quindi, occorre formarsi molto bene e fare un certo tragitto anche all’estero. Se si vuole lavorare in Italia, occorrono delle alleanze precise con la politica. Se no, si resta fuori Italia e questo tema è meno invadente.
In un panorama artistico in continua trasformazione, Angela Vettese ci lascia con una riflessione lucida e pragmatica: fare il curatore oggi significa muoversi con consapevolezza tra passione, influenze esterne e pragmatismo. Non basta l’amore per l’arte, serve un fisico bestiale, e forse anche un pizzico di disillusione. Ma per chi è disposto a mettersi in gioco, le possibilità esistono. E chissà, magari proprio nelle deviazioni e nelle pause si nasconde la strada giusta.
Leonardo Piazza


