La curatrice e scrittrice Filipa Ramos riflette su come l’arte contemporanea possa cambiare paradigmi, coltivare un’empatia tra specie e contribuire a un cambiamento ecologico che non può più essere rinviato.
La crisi planetaria non è più lo sfondo: è la condizione stessa del presente. Lo mostrano l’intensificazione della crisi climatica, l’estinzione di massa, l’inquinamento sistemico. In questo scenario, nell’arte contemporanea ha preso forma una svolta ecologica: molti artisti non si limitano a rappresentare la natura, ma iniziano a lavorare con essa. La considerano un soggetto con cui dialogare; la osservano come un insieme di processi e relazioni che incidono direttamente sulla nostra vita.
In prima linea in questo dibattito c’è Filipa Ramos (Lisbona, 1978), curatrice, pensatrice e autrice internazionale, il cui lavoro mette costantemente in discussione lo sguardo antropocentrico. Curatrice di biennali e progetti su larga scala, oltre che editor di pubblicazioni di riferimento, Ramos è diventata una voce chiave nel dare forma a un lessico “più-che-umano”, capace di descrivere come l’arte possa incidere sui nostri modi di percepire e abitare il mondo. Il suo nuovo libro, The Artist as Ecologist: Contemporary Art and the Environment, offre la cornice di questa conversazione: una mappa delle principali strategie con cui molti artisti oggi affrontano la nostra condizione ambientale condivisa.
Filipa Ramos ha tracciato un percorso curatoriale e intellettuale segnato da un coinvolgimento ecologico sempre più profondo. Il suo itinerario inizia con una peculiare attenzione alla rappresentazione animale, in particolare come curatrice editoriale del volume Animals nella collana Documents of Contemporary Art della Whitechapel Gallery. Questa ricerca si è poi ampliata in una più vasta esplorazione della coscienza interspecie attraverso The Shape of a Circle in the Mind of a Fish, piattaforma di ricerca interdisciplinare di lunga durata che ha co-sviluppato per le Serpentine Galleries. Come curatrice di importanti progetti espositivi, ha portato questa visione su una scena internazionale: da Bodies of Water (13esima Biennale di Shanghai) e Biennale Gherdëina ∞ (Persones Persons), fino a Bestiari, installazione immersiva e multisensoriale di Carlos Casas curata da Ramos per Catalonia in Venice, presentata come Evento Collaterale della 60. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia (2024). Attraverso questi ruoli diversi, Ramos ha costruito una pratica che passa dalla teoria all’esperienza vissuta, affinando il modo in cui orientiamo il rapporto tra arte e mondo più-che-umano.
L’INTERVISTA A FILIPA RAMOS
Hai curato mostre emblematiche come Bodies of Water, direttamente ispirata all’idrofemminismo di Astrida Neimanis. Come traduci un concetto filosofico così profondo in un’esperienza biennale su larga scala per un pubblico ampio, e come si collega questo alle emergenti ricerche antropologiche delle blue humanities e al pensiero oceanico nella pratica curatoriale?
Bodies of Water, la 13esima Biennale di Shanghai (2020-21), è stato un progetto concepito dal direttore artistico della mostra Andrés Jaque, e per me è stato un onore entrare nel suo team curatoriale e contribuire al suo pensiero. L’idrofemminismo di Astrida Neimanis non era un tema da illustrare, ma un metodo per esplorare come l’arte possa affrontare forme di fluidità, prossimità e flusso, tra fiumi, forme di automazione e intimità. Con Andrés e con tutto il team ho cercato di pensare con maree, circolazioni e porosità: come le opere si toccano, si infiltrano e si modificano a vicenda; come il pubblico si lasci trasportare anziché procedere lungo canali interpretativi fissi; come la biennale stessa potesse risultare mareale, ritmica, instabile. La sfida, in una mostra pubblica su larga scala, è tradurre queste intuizioni filosofiche in forme che possano essere percepite prima di essere comprese ‒ umidità, risonanza, suono, flusso, dispersione ‒ affinché i visitatori si sentano invitati in una relazione, più che istruiti su un’idea.

Il tuo lavoro si allontana costantemente dall’antropocentrismo; in progetti come Bestiari usi l’immersione sensoriale per decentrare l’umano. Quali sono le principali sfide e responsabilità del curare per un pubblico più-che-umano? L’empatia è sufficiente a produrre un cambiamento sistemico? Come possono i curatori mettere in scena urgenza e immediatezza di fronte al collasso climatico?
È una domanda molto interessante e mi piacerebbe concepire una mostra per animali o piante, ma Bestiari, un progetto che ho concepito con l’artista Carlos Casas per la Biennale di Venezia 2024, era interamente dedicato a un pubblico umano. Ciò che tentava, tuttavia, era invitare gli esseri umani ad abitare una posizione sensoriale che non è strettamente la loro ‒ a sentire l’instabilità, la vulnerabilità e le scale percettive alterate che altri esseri sperimentano ogni giorno. In quel senso, più che curare per un pubblico più-che-umano, la sfida diventa curare verso una consapevolezza più-che-umana: aprire le condizioni affinché i visitatori riconoscano i propri intrecci e le proprie responsabilità all’interno di un ambiente condiviso e fragile.
La tua pratica collaborativa con Lucia Pietroiusti, che hai detto funzionare come “un’unica entità”, è una caratteristica determinante del tuo lavoro. In che modo questo modello di curatela condivisa plasma progetti di lunga durata e ad alta intensità di ricerca come The Shape of a Circle in the Mind of a Fish alle Serpentine Galleries? Lo vedi come uno spazio per ciò che Claire Bishop chiama antagonismo relazionale, dove conflitto e asimmetria possono emergere invece di essere appianati?
Con Lucia siamo istintivamente porose alle reciproche intuizioni, ai dubbi, alle ossessioni e ai flussi di lavoro. Progetti come The Shape of a Circle in the Mind of a Fish non hanno una singola voce autoriale; sono plasmati dalle nostre letture, dai nostri ascolti e dalla fiducia reciproca. Non conosco questa idea di Claire Bishop (leggo pochissima teoria dell’arte, perché mi interessano molto di più la narrativa e la scienza), quindi non so come rispondere. Quello che posso dire è che la lunga durata del progetto, e la sua permeabilità attraverso discipline, specie e formati, nasce dall’amicizia e dall’entusiasmo: il che significa che il quadro curatoriale è una relazione più che un progetto, un’ecologia del pensiero più che una divisione del lavoro.

LA PROSPETTIVA CRITICA DI FILIPA RAMOS
Il tema del “ritornare” sembra criticare un mondo dell’arte urbanocentrico. Nello spirito di The Farm di Bonnie Ora Sherk o di INLAND di Fernando García-Dory, che ruolo possono realisticamente giocare le istituzioni artistiche nel sostenere l’agricoltura rigenerativa e i sistemi di conoscenza rurale?
L’idea del “ritornare” nel libro non è nostalgica; è una critica della forza centripeta che attira il valore artistico verso la città. Progetti come The Farm di Bonnie Ora Sherk o INLAND di Fernando García-Dory propongono che la produzione culturale possa radicarsi nell’agricoltura rigenerativa, nelle competenze rurali, in forme di sapere che hanno sostenuto la vita per secoli. Le istituzioni possono avere un ruolo, ma solo se sono disposte a spostare potere e risorse lontano dal centro metropolitano. Si veda, per esempio, ciò che sta facendo Grizedale, o Salmon Creek Farm. Questo implica impegni di lungo periodo: residenze legate alla terra, collaborazioni con comunità agricole, finanziamenti che seguono ritmi stagionali invece che calendari fiscali, e l’accettazione che il sapere circoli in modo diverso fuori dalla città. Richiede umiltà ‒ le istituzioni devono imparare ad ascoltare i territori, invece di estrarne risorse.
Il capitolo “Performing” mette in luce opere come Sun & Sea. Secondo te, cosa, nella liveness e nella performance incarnata, è capace di comunicare la complessità emotiva della crisi climatica, forse in modi che gli oggetti statici non possono?
La performance si muove al ritmo dei corpi ‒ sudando, respirando, stancandosi, perseverando. Opere come Sun & Sea ci fanno sentire la crisi climatica non come un’astrazione ma come una condizione fisiologica e ti chiedono di scegliere il modo in cui vi partecipi, fisicamente ma anche emotivamente e mentalmente, riconoscendoti (o meno) nei tipi di narrazioni che i performer stanno cantando. La liveness consente un rapporto più completo con simultaneità e contraddizione, inevitabili nei tempi che viviamo: bellezza e terrore, svago e sfinimento, piacere e lutto ecologico.
Questo è difficile da trasmettere attraverso oggetti statici, che spesso rischiano di diventare illustrativi, allegorici o didascalici: a proposito di qualcosa. Mi interessa il modo in cui i media time-based, inclusa la performance, possano metabolizzare le emozioni climatiche ‒ non rappresentando la catastrofe, ma rivelando registri fragili, ritmici, a bassa frequenza che attraversano i corpi e plasmano il vivente attraverso l’instabilità ecologica.
Il concetto di “entanglement”, centrale per pensatrici come Donna Haraway, ricorre in tutto il tuo lavoro. In che modo questa idea sfida il fare-mostre tradizionale, che tende a separare oggetti, discipline e spettatori, e come potrebbe apparire o essere percepita una mostra intrecciata in termini di display, mediazione o struttura istituzionale?
La nozione di entanglement di Donna Haraway mette in discussione il ruolo storico delle mostre come dispositivi di separazione: questo oggetto, quella disciplina, quel pubblico. Curare mostre intrecciate significa mettere in discussione e, in ultima analisi, rifiutare quelle separazioni, quella membrana (che spesso è fisica: una vetrina, una cornice, una gabbia). Significa riconoscere la co-dipendenza: che opere, visitatori, materiali, climi, specie e infrastrutture stanno costantemente intra-agendo e che le classiche divisioni soggetto-oggetto, natura-cultura sono dualismi artificiali imposti dalla modernità occidentalizzata.
Non avevo mai pensato prima al concetto di mostra entangled, quindi non so davvero che aspetto avrebbe. Forse prova a capire come creare zone invece di stanze; generare paesaggi sonori sovrapposti; mettere insieme display che richiedono cura più che controllo. La mediazione diventa meno una questione di spiegazione e più di facilitazione di relazioni ‒ una guida più che uno script. A livello istituzionale, questo potrebbe significare team interdipartimentali, budget porosi, co-autorialità con scienziati ambientali, agricoltori, attivisti o eticisti degli animali. “Entanglement” è diventata ultimamente una parola molto di moda, soprattutto dopo il bestseller di Merlin Sheldrake. Eppure resta utile come etica curatoriale e come strategia spaziale.
Guardando al tema dell’“exhibiting”, progetti come Untilled di Pierre Huyghe o In love with the World di Anicka Yi creano sistemi viventi e in evoluzione all’interno delle istituzioni. Quali nuove richieste pongono queste opere a curatori e musei, storicamente orientati alla conservazione e alla stasi?
Opere come Untilled di Huyghe o In love with the World di Anicka Yi non sono stabili; respirano, decadono, si adattano, talvolta muoiono e, in una certa misura, esistono oltre il nostro controllo. Per i curatori, questo significa rinunciare al controllo e accettare che il comportamento dell’opera possa contraddire le aspettative istituzionali ‒ inclusa l’aspettativa di conservazione.
I musei hanno bisogno di nuovi protocolli: competenze biologiche, illuminazione e ventilazione adattive, linee guida per il benessere delle specie viventi, team di manutenzione che comprendano gli ecosistemi più che le vetrine. Queste opere richiedono che l’istituzione stessa diventi un sistema vivente. La domanda non è solo come prendersi cura dell’opera, ma come prendersi cura con essa.
MOSTRE E CURATELA SECONDO FILIPA RAMOS
Allestire una mostra richiede una certa quantità di CO2, sia per essere prodotta sia per essere visitata da persone provenienti da tutto il mondo. Dal tuo punto di vista, quali sono le strategie più concrete che curatori e istituzioni dovrebbero adottare sin dalle primissime fasi di pianificazione, non solo per costruire narrazioni convincenti sulla crisi climatica, ma anche per ridurre e, dove possibile, compensare le emissioni che le loro mostre generano? Dove vedi un reale cambiamento strutturale e dove vedi greenwashing?
Le mostre, come la maggior parte delle cose che facciamo, producono emissioni ‒attraverso materiali, spedizioni, viaggi, costruzioni, energia. La domanda è quanto presto, nel processo, affrontiamo questo fatto. Per me, è nella fase di pianificazione che avvengono le riduzioni più significative: produzione locale invece di spedizioni globali; riuso e adattamento di strutture esistenti; viaggi lenti; telepresenza quando possibile; riduzione della scala; collaborazione con istituzioni vicine per consolidare i trasporti; priorità a opere che non richiedano un’infrastruttura tecnologica eccessiva.
Le compensazioni non bastano; rischiano di diventare alibi morali. Il cambiamento strutturale avviene quando curatori, artisti e istituzioni accettano i vincoli come generativi. Il greenwashing emerge quando la sostenibilità diventa una strategia di comunicazione invece che operativa ‒ quando l’unica cosa “green” in un progetto è il comunicato stampa.
Infine, riprendendo il capitolo “Reverberating”, in cui discuti Documenta 13 e la sua vita successiva attraverso iniziative in ambito artistico, scientifico ed ecologico, come riverberano le mostre nel mezzo dell’attuale crisi climatica ed ecologica? Quali quadri curatoriali o collaborazioni interdisciplinari trovi più efficaci nel trasformare quell’eco oltre la galleria in azione ecologica e climatica concreta, invece di restare al livello del discorso?
Nel capitolo “Reverberating “, rifletto su Documenta 13 (2012) di Carolyn Christov-Bakargiev perché ha mostrato, in modo pionieristico, come una mostra possa comportarsi come un meccanismo di dispersione dei semi ‒ avviando relazioni, cluster di ricerca, progetti scientifici, alleanze attiviste. Nel contesto della crisi climatica, questa riverberazione diventa ancora più cruciale e penso che il suo ruolo debba essere riconosciuto meglio, perché ha davvero introdotto discorsi su ecologia e scienza nell’arte mainstream.
Alcuni dei quadri più interessanti trattano una mostra come un momento all’interno di una traiettoria più lunga: progetti che hanno vita prima e dopo la galleria, e che costruiscono infrastrutture per la collaborazione tra arte, scienza, ecologia e governance locale. Ciò che conta non è l’intensità della settimana di apertura, ma la durata delle relazioni che seguono. Quando le mostre investono in un sapere situato, in responsabilità di lungo periodo e in una compagnia transdisciplinare, le loro eco diventano forme di azione ‒ non rappresentazioni o metafore.
Linda Rubino



