Carola Cappellari è una fotografa documentarista nata a Venezia nel 1995. Il suo lavoro esplora le connessioni tra fotografia e diritti umani, con particolare attenzione a temi quali identità, migrazione e famiglia. Grazie al suo sguardo attento e a una ricerca profonda in ambito documentaristico e umanistico, nel 2024 è stata selezionata per la residenza annuale della Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia. In questa intervista, le abbiamo chiesto di raccontarci uno dei suoi progetti, “Sons of the Sun”.
Sviluppato tra il 2021 e il 2024 a Gaziantep, nel sud della Turchia, vicino al confine con la Siria, Sons of the Sun descrive le storie di giovani siriani ‒ Mustafa, Sondos, Duah, Michael e Hamza ‒, le cui vite sono state completamente trasformate dopo la fuga forzata dalla Siria alla Turchia.
Carola Cappellari ci invita ad andare oltre la narrazione unilaterale a cui siamo spesso abituati dai media, proponendo invece una storia basata sulla relazione, incentrata sull’ascolto, sull’intimità e sulla co-creazione. Attraverso la fotografia, Cappellari disegna uno spazio in cui le persone, private delle loro case, riescono a riappropriarsi di esperienze di vita, identità e delle vicende di cui sono custodi.
L’INTERVISTA A CAROLA CAPPELLARI
Come è nato il progetto Sons of the Sun? Qual è stato il momento in cui hai iniziato a raccontare queste storie?
Mentre vivevo ancora a Londra, mi era stata offerta l’opportunità di partecipare a un progetto di volontariato europeo in Turchia che si occupava di fornire attività educative a bambini e giovani siriani e turchi. Avevo già avuto modo di collaborare come volontaria con un’associazione culturale a Londra, Qisetna, che si occupa di dare voce alla diaspora siriana.
Quando sono arrivata in Turchia, però, mi sono trovata di fronte, in un modo molto più diretto, alle difficoltà che certe persone dovevano affrontare, soprattutto i miei coetanei, a causa della migrazione forzata. Questo ha influenzato il mio interesse e la ricerca su come la migrazione contribuisce alla formazione dell’identità personale. Tutto ciò mi ha portata a lavorare al progetto, coinvolgendo le persone che conoscevo.
Come hai costruito un rapporto di fiducia con i ragazzi che hai fotografato? C’è stato un episodio particolarmente intenso o rivelatore?
Sono arrivata a Gaziantep a gennaio 2021 e per mesi non ho scattato alcuna foto. Mi sono immersa totalmente nelle attività dell’associazione e nella vita condivisa con i compagni provenienti da vari Paesi e con i volontari locali turchi, curdi e siriani.
Ricordo quei mesi come i più belli, perché li ho vissuti appieno. Eravamo in tantissimi ed è stato un periodo molto intenso di vita, ricco di emozioni, di ricordi. Tra questi, il matrimonio di due amici, Mustafa e Irene, celebrato nel settembre 2021: lui, siriano, volontario locale presso l’organizzazione, e Irene, italiana, arrivata a Gaziantep come me attraverso il programma di volontariato europeo. Si sono innamorati e hanno optato per il matrimonio come unica soluzione per poter continuare la loro storia lì o altrove. Io e altri compagni li abbiamo aiutati a organizzare il matrimonio tra mille peripezie e difficoltà burocratiche, e io ho avuto l’onore di essere la loro fotografa. Quel giorno avrei scattato la prima foto di Sons of the Sun: Irene a casa di Mustafa che indossa l’abito nuziale tradizionale siriano la sera del loro matrimonio, a cui il giorno dopo sarebbe seguita la cerimonia con rito italiano.
Riguardando quelle foto nei mesi successivi, mi resi conto ancora di più della ricchezza di ciò che stavamo vivendo ‒ sia per loro, che si sono sposati, sia per il rapporto che si era creato tra di noi.
Iniziai a riflettere sulla possibilità di continuare a raccontare le storie delle persone che mi circondavano, di creare un lavoro collaborativo. Mi piaceva l’idea di sviluppare queste amicizie anche attraverso la fotografia, quindi ho coinvolto altri ragazzi che già conoscevo o che avevano espresso il desiderio di collaborare.
Nel frattempo si presentavano occasioni in cui scattavo fotografie, quindi passavo del tempo nelle case delle loro famiglie. Erano ragazzi più giovani di me, che vivevano ancora con i genitori, e così spesso venivo invitata ai pranzi, anche in occasione del Ramadan, all’Iftar, eccetera. Insomma, era tutto molto ‒ mi piace definirlo ‒ organico, nel senso che il processo era davvero naturale.
In che modo pensi che l’identità culturale di questi giovani sia cambiata dopo la migrazione forzata?
Questo aspetto emerge principalmente dalle conversazioni che ho avuto. Per esempio, Mustafa mi disse che lui non si sentiva di appartenere più né alla Siria, perché la Siria di una volta non esiste più, né alla Turchia, perché comunque non è una terra a cui si è mai sentito di appartenere, nonostante parlasse benissimo il turco e gran parte della sua famiglia e dei suoi amici vivesse ormai lì. “Forse l’Italia sarà casa”, mi disse un giorno, in procinto di trasferirsi in Italia.
Parlai molto con tutti loro del senso di appartenenza ed emergeva spesso la sensazione di trovarsi in un limbo, sospesi tra due dimensioni. In un’età preadolescenziale, ritrovarsi a doversi riadattare a una cultura diversa, con una lingua diversa, non è facile, seppure Gaziantep sia culturalmente abbastanza simile ad Aleppo. Molti di loro sperano di potersi trasferire altrove.
Un amico mi raccontava che non pensava di avere la possibilità di vedere un giorno una Siria libera, forse nemmeno tra cinquant’anni. Non aveva troppa speranza che il regime di Assad potesse cadere e il Paese potesse tornare a essere libero.
C’era quindi sempre una sorta di speranza mista all’amarezza. Non poter rientrare nel proprio Paese, che in ogni caso non sarà più lo stesso perché è stato distrutto da anni di conflitti, e non poter andare altrove crea una sensazione di limbo.
CAROLA CAPPELLARI E LA FOTOGRAFIA
Credi che la fotografia possa essere uno strumento di aiuto per chi ha perso la propria casa e, in un certo senso, la propria identità sociale?
Per me è stata una speranza e una fonte di motivazione il fatto che questo progetto potesse in qualche modo anche fare del bene a loro, seppur consapevole che si tratti pur sempre “solo” di fotografia.
Michael era molto contento di aver avuto la possibilità di condividere, attraverso questo progetto, la sua passione per la musica, di raccontare di essere un musicista e un produttore musicale. Duah, invece, è una ragazza entrata a far parte del progetto un po’ dopo, perché l’ho conosciuta nel 2023, a seguito del terremoto in Turchia. L’ho incontrata mentre viaggiavo con dei colleghi lungo i paesi limitrofi a Gaziantep per svolgere un lavoro assegnato per un giornale. Il mio collega turco ha intravisto una ragazza dipingere una parete della tenda in cui lei e la famiglia avevano trovato rifugio dopo che la loro casa era stata distrutta dal terremoto. Tutti erano stati colpiti dai suoi dipinti su quella tenda bianca. Raccontavano la notte del terremoto ed erano estremamente espressivi e forti. Sono tornata più volte a incontrarla. Grazie a questi incontri e alla visibilità ottenuta attraverso la pubblicazione di parte del progetto fotografico sul Time qualche mese dopo, Duah è stata contattata da un’associazione americana che l’ha aiutata a vendere i suoi dipinti e a sostenere la sua famiglia anche grazie alle sue opere. C’è stato quindi un risvolto per me importante: avere aiutato lei e la sua famiglia in modo concreto.
Quali sfide hai incontrato nel realizzare questo progetto in un contesto di migrazione forzata?
Il momento più difficile è stato quando due ragazze hanno deciso di ritirarsi dal progetto. È successo nel 2023, dopo che avevamo già lavorato e prodotto tante immagini.
Mi è ovviamente dispiaciuto, perché abbiamo condiviso anche una forte amicizia e tanti ricordi. Sono loro che ho subito raggiunto quando sono tornata in Turchia immediatamente dopo il terremoto. Per via dell’instabilità che si è creata a causa del terremoto e delle successive elezioni in Turchia, sono aumentati gli episodi di razzismo nei confronti dei siriani e dal punto di vista legislativo la situazione era ancora più incerta.
Le ragazze, giustamente, avevano molte preoccupazioni a esporsi soprattutto nei confronti della loro famiglia, nonostante io sia stata sempre collaborativa nel realizzare le foto e trasparente rispetto all’uso che ne avrei fatto. Però è totalmente comprensibile che alcuni di loro abbiano scelto di non continuare. Fa parte della storia stessa il fatto che non si sentissero tranquille abbastanza da poter partecipare a questo progetto: dice molto della situazione in Turchia e, fino a dicembre scorso, in Siria.
La fotografia non è mai neutra, rientra sempre in determinati meccanismi e può viaggiare anche al di fuori di certi binari che inizialmente immaginiamo.
Se potessi mostrare questo progetto a un pubblico specifico, chi vorresti raggiungere e perché?
Fin dall’inizio pensavo che una narrazione più personale delle loro storie fosse importante soprattutto in Europa, perché mi rendevo conto che c’era tanta misinformazione relativa alla comunità siriana in generale.
Mi ritrovavo a raccontare tantissimo di quello che vedevo o sentivo e imparavo da loro. Con i miei connazionali prima di tutto, mi ritrovavo a vedere come le persone fossero sorprese di sentire storie diverse da quelle che vengono costantemente fatte circolare dai media. Quindi mi convincevo ancora di più di quanto fosse necessario fornire una narrativa alternativa, più personale e intima. Per questo ho sempre immaginato che il pubblico potesse essere europeo, ed escludevo il pubblico turco per motivi legati alla loro salvaguardia in generale, pur non trattandosi di un progetto con fini oppure opinioni politici. In ogni caso ho cercato di fare in modo che il focus rimanesse su di loro come individui con una propria storia e dei propri sogni, permettendo loro di identificarsi nel modo in cui volessero.
Ilona Prozorova


