Autoanalisi di un cowboy. Intervista al pittore Alessandro Miotti

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In occasione della mostra collettiva “Moonkillers”, allestita fino al 15 marzo 2025 presso la Galleria Tommaso Calabro di Venezia, abbiamo chiesto ad Alessandro Miotti di descriverci la sua poetica dell’inconscio e le sue aspirazioni. 

Alessandro Miotti, nato a Sandrigo (VI) nel 1991, è laureato in Arti Visive all’Accademia di Belle Arti di Venezia, città in cui vive e lavora. Ha partecipato a varie mostre collettive e workshop, sia in Italia sia all’estero, tra cui Salon Palermo 4, presso la RizzutoGallery di Palermo, curata da Antonio Grulli e Francesco De Grandi, [ahr-kahyv], (Depa Archive) presso la galleria Gustaaf Callierlaan 15, 9000, Gent, curata da Pieter-Jan De Paepe; Haunted Garden, presso The Artist Room Gallery di Soho, curata da Leonardo De Vito, Hôtel-Dieu, Venezia, presso la galleria AplusA, curata in collaborazione con School for Curatorial Studies Venice, e Summer Workshop 2022 di Studio Enrique Martínez Celaya di Los Angeles. Fa parte del collettivo artistico zolforosso, realtà culturale autogestita, nata a Venezia nel 2017. I soggetti più ricorrenti, cani e cowboy, sono recuperati sia dalla tradizione artistica sia dall’infanzia di Miotti. L’artista indaga aspetti dell’inconscio umano attraverso una rappresentazione distorta e nuova dei suoi ricordi. Dopo un primo incontro nel suo studio a Mestre, abbiamo parlato con lui nella galleria di Tommaso Calabro a Venezia. 

INTERVISTA AD ALESSANDRO MIOTTI 

Perché hai scelto l’Accademia di Venezia rispetto ad andare all’estero, dove le istituzioni offrono più possibilità? 
La mia scelta è stata quasi casuale, perciò non ho mai considerato di andare fuori. Sicuramente non pensavo di fare l’università, ma, sapendo che da piccolo amavo disegnare, mia madre mi spinse verso l’Accademia. Quell’ambiente mi ha subito colpito, e siccome in adolescenza avevo smesso di disegnare, ho sentito la spinta del “voglio provarci anch’io”. Poi ho subito legato con persone amiche come Pierluigi Scandiuzzi, Lorenzo Fasi e Fabiano Vicentini, che mi trasmisero grande entusiasmo. Il professor Di Raco, con la sua disciplina, mi ha fornito un’impostazione fondamentale per il mio lavoro. In generale, vivere l’atelier è stata un’enorme fonte di ispirazione. 

Perché hai optato per la pittura figurativa, nonostante la competitività che caratterizza questo ambito? 
Forse sono un po’ condizionato dalla fortuna che ho avuto ultimamente, ma sento che oggi, in realtà, è un ottimo momento per fare pittura. Anche solo dieci anni fa a malapena esistevano piattaforme in grado di far risaltare il proprio lavoro e farlo vedere globalmente. Poi, certo, riuscire a fare il pittore e vivere di ciò è molto difficile, a prescindere dalle condizioni generali. 

Come ti muovi nella scena artistica internazionale? Hai una strategia per esporti anche nel mondo istituzionale? Come individui questi canali? 
Creo la mia visibilità curando il mio profilo Instagram. È un ottimo mezzo per mostrare la parte migliore di me, ciò mi permette di instaurare delle relazioni con altri lavoratori del settore. Ho anche ampliato i contatti grazie a figure come Samuele Visentin, il mio dealer, ma anche Antonio Grulli e Tommaso Calabro. Un buon curatore è un tramite fondamentale per portare arte nuova nelle gallerie. 

Che ruolo ha per te il curatore? 
Samuele Visentin ha toccato delle profondità che io volevo ed esigevo, e per questo c’è una grandissima fiducia. Il suo sguardo sincero e non giudicante è essenziale nei momenti fragili della creazione. Condivide il mio stesso entusiasmo nel processo creativo, e ha la capacità di vedere le mie bozze già proiettate nel futuro, alla stessa maniera in cui le vedo io. 

Credi che saresti in grado, insieme al curatore, di creare la giusta narrazione tra le tue opere all’interno di una personale? Come gestiresti il tutto?  
È da tanto tempo che vorrei fare una personale, costruire una mostra più ragionata. Sento che dovrebbe esserci un gioco di sguardi fra i soggetti che tratto, in modo da farli dialogare creando dei rimandi tra un quadro e l’altro, e stimolando il visitatore a coglierli. Probabilmente resterei sempre sul tema dei cowboy, ma vorrei che i leit motiv fossero Sandrigo, i “ragazzi di campagna”, tutte le sfaccettature che crea l’essere cresciuti in periferia e poi trovarsi a vivere in una città. Vorrei esprimere quel “fattore dell’inganno”, della mentalità chiusa in cui si cresce in certi contesti, per poi trovare un’apertura totale, e il non capire la propria direzione. Mi piacerebbe chiamare la mostra “Sandrigo” o comunque farvi riferimento nel titolo. Vorrei trasmettere quel senso di appartenenza a quella specifica realtà, alle persone di quel posto. Il sogno è esporre alla Castle Gallery di Los Angeles, ma per ora preferisco crescere attraverso le collettive. 

I SOGGETTI DELLE OPERE DI MIOTTI 

Quale ruolo hanno i cani nelle tue opere? 
I miei cani sono come autoritratti, animali a cui vengono dati dei connotati antropomorfi, soprattutto nello sguardo. C’è però anche una struttura legata alla banalità, alla semplice rappresentazione di un soggetto canino: esso è generalmente inteso come cute, ma io gli dono delle espressività “strane”. Il quadro con l’osso è stato il primo a esprimere questa poetica, e deriva dalla brutta fine di una relazione. Mi sono interrogato su quello che ho vissuto, e su come rendere le figure duali del cane buono e cattivo, che si contendono un osso simile, nella forma, a un cuore. Quando ho creato queste narrazioni, i cani sono stati i miei primi esperimenti per parlare dei miei problemi nelle relazioni, di tutti quei pattern

E per quanto riguarda i cowboy? 
Ho sempre sentito l’accumularsi di cose personali da esprimere, per questo mi sento spinto dai cowboy: voglio fare qualcosa che mi dia carica e senso di rivalsa, prendermi il mio spazio. I cowboy sono nati durante un workshop in America. I primi li facevo d’estate, tutti neri e a cavallo. Questo perché in America vivevo in una zona nera di Los Angeles, in cui la disparità era evidente. Sono nati quindi da un primo tentativo di esprimere il sentirsi diversi, emarginati, cosa che poi ho sublimato nelle opere successive, più personali. Quest’anno ho lavorato molto sulla solitudine, poiché ho avuto spesso la FOMO, soprattutto vivendo a Venezia. Mi sono interrogato su come morirò, o meglio su come morirà una parte di me: la solitudine in questo senso serve come spazio per migliorare se stessi, ma va affrontata, non evitata o anestetizzata tramite, ad esempio, le dipendenze. 

Le tue opere parlano di solitudine ma hanno anche una carica erotica. Come concili questi due aspetti? 
Per quanto riguarda il rapporto tra erotico e solitudine, intesa come emarginazione, questa è probabilmente più facile da provare per il genere femminile, data la società maschilista in cui viviamo. L’elemento erotico si pone proprio come contraltare, difesa davanti al sentimento di insicurezza, volto a mascherarlo ostentando una finta nonchalance. Il “super maschile” dei miei cowboy rispecchia proprio questo: tutti gli atteggiamenti introiettati dai maschi per non affrontare le proprie insicurezze e trovare soluzioni attraverso il dialogo. Nel momento in cui ci si nasconde dietro una finta sicurezza, si risulta inevitabilmente buffi, non si è sinceri in primis con sé. 

Come organizzi la tua giornata in studio? 
Generalmente lavoro di notte, anche se oggettivamente a nessuno piace lavorare in quell’orario. La notte è una circostanza per me magica, ci sono solo io, con molte meno distrazioni, e quando parte il flusso voglio assecondarlo fino alla fine, finché ho tutte le energie. 

LA PITTURA SECONDO MIOTTI 

In studio hai descritto come i tuoi quadri siano il risultato di stratificazioni, materiali su materiali fino ai tocchi finali a olio. Che tipo di corrispondenza c’è tra il processo creativo e quello che senti mentre dipingi?  
Mi preparo anche psicologicamente ad affrontare il lavoro, con tutti i pensieri che comporta, la rabbia di quando le cose non vengono come si vuole, l’idea di fare qualcosa di criticabile. Il mio lavoro nasce comunque da una frustrazione, ma sovrapporre più strati di pittura è anche un modo per chiarire che a un certo punto non mi interessa più se la resa è pulita, liscia. Io posso lanciarmi, avere ripensamenti, cambiare in maniera drammatica quello che sto facendo. Principalmente parto con i pastelli a olio, creando un disegno libero sulla tela. Il pastello a olio è uno strumento ricco di potenziale perché non c’è alcun tramite fra mano e tratto. Nella costruzione è compreso anche l’acrilico, lo spray, e infine l’olio che serve a rifinire e dare qualità tecniche diverse. Il mio intento è valorizzare sia la freschezza dell’immagine nella sua fase iniziale, sia il tocco finale che dona completezza. In questo modo sento che i miei quadri arricchiscono l’occhio, creando una rappresentazione più viva. Si guarda l’opera nella sua interezza, ma anche progressivamente, soffermandosi su elementi trattati in maniera più vaga o su altri più costruiti. 

Pensi che i tuoi dipinti abbiano il potere di suscitare una riflessione? 
Spero di mandare un messaggio, mi entusiasma sapere che le mie opere possono avere un impatto su chi le vede, che le persone vi si riconoscano, soprattutto chi non si occupa di arte. Il feedback più importante che ricevo anche in studio è da parte di amici che fanno tutt’altro, che sono curiosi e recepiscono, si identificano. Persino mia madre riesce a cogliere qualcosa che va oltre la banale rappresentazione del “farsi le canne”, e le arriva la carica energetica. Il mio obiettivo non è essere inscritto unicamente nell’arte contemporanea, come è successo per Goya: nelle sue pitture non c’è un dresscode che ti riporta all’arte dell’Ottocento, potrebbero essere state fatte ieri. Ciò che lo rende eterno è anche il tratto caricaturale che imprime ai soggetti: non sono persone veramente esistite, eppure sono reali, come i miei cowboy. Il mio intento non è rompere totalmente con il passato, ma creare la “scoperta” dentro soggetti già fruibili. 

Giulia Botteri 

https://www.instagram.com/miotti_alessandro?igsh=MXVuZm1uNGo4MHpidQ==

https://www.tommasocalabro.com/mostre/moonkillers