In una Venezia sempre più succube della velocità, del denaro, dell’avidità e di tanto altro, dove è solo un certo sistema dell’arte a dettare i ritmi, si respira aria pulita grazie a Osservatorio Sant’Anna. Nell’omonimo complesso del sestiere di Castello, alla fine di via Garibaldi e a pochi passi dalla sede dei Giardini della Biennale, un gruppo di ricerca dona speranze a un edificio e a un’intera comunità. Abbiamo intervistato Matteo Binci, curatore e co-fondatore del progetto.
Osservatorio Sant’Anna è tante cose: è uno strumento, un dispositivo, un luogo, uno spazio e soprattutto una voce. Una voce che si oppone alle dinamiche economiche che regolano acquisti e speculazioni nella città di Venezia; una voce per chi non sente di averne. Nate all’interno della cornice di Biennale Architettura 2025 Intelligens. Natural. Artificial. Collective., le iniziative di OSA (Osservatorio Sant’Anna) hanno accolto e arricchito culturalmente il sestiere di Castello, offrendo un luogo e momenti condivisi per la comunità. E, in un certo senso, salvando un edificio dal divenire un ennesimo albergo, una finta residenza per artisti o uno spazio per mostre di cattivo gusto.
Abbiamo intervistato Matteo Binci, curatore e co-fondatore del progetto, seduti a un tavolino a pochi passi dal complesso di Sant’Anna, in un bar fortemente caratteristico di via Garibaldi, sotto la luce di un neon Cynar a forma di carciofo. Nel non plus ultra della venezianità, il 15 novembre 2025 abbiamo ascoltato il racconto di Matteo, sperando che ci possa essere un futuro per una speranza così utopicamente necessaria.

L’INTERVISTA A MATTEO BINCI
Quando e come è nato Osservatorio Sant’Anna e chi ne fa parte?
OSA è stato fondato da Matteo Binci e Maria Eugenia Frizzele, in collaborazione con Lorenzo Perri e Sabrina Morreale dello studio Lemonot. Nasce nel 2025, ma ha avuto una gestazione nei sei mesi precedenti; quindi, nella seconda metà del 2024. È nato da un’intuizione di Maria Eugenia Frizzele, residente a Venezia che abita di fronte alla chiesa. C’eravamo incontrati negli anni passati, avevamo avuto delle conversazioni e avevamo capito che c’era una complicità d’intenti e di prospettive, quindi mi ha coinvolto in quest’idea: pensare quale potrebbe essere il fine e in un certo senso il riuso della chiesa di Sant’Anna. Avevamo già iniziato a lavorare durante l’estate 2024 a una proposta a lungo termine ed è uscita una open call, Call for Ideas di Carlo Ratti – direttore artistico della Biennale Architettura 2025 –, che invitava studi provenienti da tutto il mondo, ma anche aggregazioni informali di cittadinanza, a inviare delle proposte. Noi avevamo già iniziato a strutturare l’intero progetto e abbiamo utilizzato questa occasione anche per costituirci. Avevamo capito che la chiesa necessitava comunque di uno studio di architettura (Lemonot, appunto), anche perché l’open call richiedeva la presenza di uno studio di architetti under 35. Ci siamo candidati e siamo stati valutati in maniera positiva con un punteggio molto alto. Questo è stato un po’ il pretesto per ufficializzare Osservatorio Sant’Anna. Si tratta di un processo nato tra l’amicizia, l’informalità e una riflessione sul possibile futuro differente per Venezia e nello specifico per la chiesa di Sant’Anna.
I vostri progetti riescono a coinvolgere attivamente i residenti proponendosi come un’iniziativa transgenerazionale. Qual è l’obiettivo curatoriale e pensi che questo modello possa essere un espediente – anche pratico – per opporsi alla “velocità” di Venezia? Mi riferisco al turismo di massa, agli sviluppi speculativi del mondo dell’arte e della cultura.
Si tratta di un team un po’ intergenerazionale, di giovani e multidisciplinari soprattutto. Perché Lemonot ha uno studio di architettura che non lavora strettamente nel restauro o nella costruzione di nuovi edifici, bensì nel performativo e nello spazio pubblico, nelle architetture effimere e nella riconsiderazione di quale potrebbe essere un utilizzo per preesistenze. Maria Eugenia Frizzele è una ricercatrice, dottoranda in politiche pubbliche. Io ho una pratica e un curriculum più legati alla curatela istituzionale. Quando si è creato il gruppo, penso che la prima grande scelta sia stata quella di applicare le metodologie curatoriali “standard”, quindi ad esempio, prima di tutto, di presentare dei comunicati stampa.
Le finalità di questa impostazione metodologica sono a breve e a lungo termine. Per quelle a breve termine ci siamo dati il periodo di concessione dell’infermeria da parte del Demanio – sezione regionale del Veneto, proprietario e gestore del complesso. Nove mesi, da circa marzo a novembre del 2025, con l’obiettivo di avere una consapevolezza della storia del complesso di Sant’Anna – che non è costituito solo dalla chiesa ma anche dal chiostro, dall’ex infermeria e da molti degli edifici adiacenti –, del quale si conosce poco.
Altra finalità a breve termine e nostra volontà primaria è stata la costituzione di una comunità effimera transitoria, soprattutto coinvolgendo la cittadinanza. Questo è avvenuto attraverso le assemblee che abbiamo convocato dopo la costituzione di OSA, rese possibili grazie alla collaborazione dell’Istituto comprensivo Pier Fortunato Calvi in via Garibaldi – in prossimità del complesso di Sant’Anna –, che ha dato in concessione l’uso dell’androne, e attraverso la distribuzione di manifesti nel sestiere. L’assemblea pubblica è servita per una dichiarazione d’intenti: siamo un gruppo di ricerca con uno sguardo sia interno che esterno a Venezia e abbiamo l’obiettivo di proiettare sul lungo periodo che cosa potrebbe essere la città. Abbiamo cercato di costruire reti di prossimità e di amicizie, spiegando alle persone coinvolte come avremmo agito in questo luogo e come agiamo. Grazie alla costruzione di momenti condivisi, siamo riusciti a poco a poco ad aprire una porzione sempre maggiore dell’immobile, anche e soprattutto attraverso gli eventi. Ecco quindi la curatela di una programmazione culturale fatta di momenti conviviali, piccole mostre, laboratori, autocostruzione. Abbiamo esplorato i singoli luoghi, facendoli vivere attraverso la programmazione culturale.
E per quanto riguarda il lungo periodo?
Poiché il complesso è poco conosciuto anche dai cittadini abitanti del sestiere, una delle nostre finalità sul lungo periodo è di presentare un piano che sia al tempo stesso urbanistico-architettonico, finanziario-economico e culturale, affinché l’intero complesso possa essere ripensato.
La sintesi di quello che abbiamo fatto è una partecipazione ampia e sincera, soprattutto in determinati eventi. Secondo me l’obiettivo principale che siamo riusciti a raggiungere è stato ottenuto grazie alla metodologia dei questionari. Infatti, dopo le prime assemblee, abbiamo distribuito questionari chiedendo: “Che cosa immagini per Sant’Anna? Quali sono le necessità di questo sestiere? Quali servizi mancano?”. Così siamo riusciti a comprendere molto meglio quali potrebbero essere le necessità, i desideri della popolazione e così, per quanto riguarda l’obiettivo a breve termine, anche le esigenze da un punto di vista architettonico.
Il vostro progetto ruota attorno alla rivalutazione architettonica, sociale, storica e culturale di un edificio. Perché proprio questo spazio e come ne avete ottenuto la concessione?
Da un punto di vista operativo-burocratico, l’iter è stato il seguente. Abbiamo utilizzato un’associazione culturale non profit, Marche Arteviva, della quale io sono presidente e con la quale realizzo altre progettualità. Questo è avvenuto perché si necessita di un ente o di una realtà giuridica per chiedere in concessione un luogo al Demanio. Successivamente a una richiesta di concessione con obiettivo di ricerca e programmazione culturale, la concessione è stata data all’associazione per un tempo compreso fra marzo e novembre 2025, con finalità di ricerca dietro una compensazione economica minima per coprire il lavoro burocratico svolto. Va considerato che l’unico luogo attualmente agibile in termini di sicurezza dell’intero complesso è l’ex infermeria: un volume adiacente alla chiesa a oggi non tecnicamente agibile, ma per il quale il Demanio ha stanziato un importo importante ai fini del ripristino, investendo nella pulitura e nella potenziale messa in agibilità. La concessione verteva solo ed esclusivamente sull’infermeria, però la concessione include la possibilità di utilizzare gli altri luoghi aperti.
Un’altra parte della concessione mirava a far scoprire l’intero complesso che da oltre quarant’anni è chiuso ed è stato luogo di molte trasformazioni. Dall’Ottocento, infatti, non è più chiesa, ma diventa un complesso con un ospedale militare. Il luogo dove noi risiediamo si chiama infermeria proprio perché l’infermeria è stata una delle ultime attività che ha chiuso e molte persone anziane del sestiere ricordano e riconoscono quello spazio. Quindi, da una parte, c’è l’idea simbolica di riaprire almeno una porta per dichiarare una presenza; dall’altra, c’è la possibilità di avere una base operativa per lavorare. A oggi stiamo collaborando con oltre quindici enti di ricerca tra università italiane e straniere e tantissime università stanno chiedendo di poter collaborare. Per quanto povero, abbiamo bisogno di un luogo. Questo è un luogo freddo, senza attacco all’elettricità e all’acqua per i problemi di agibilità di tutti gli edifici attorno, però è una base. L’abbiamo scelto essenzialmente come necessità in quanto unico luogo occupabile, ma, dopo novembre 2025, quando scadranno questi mesi di concessione, si aprirà un periodo di contrattazione e dialogo con il Demanio, che dovrà decidere, essendo il proprietario, quale fine vuole far fare a questo bene.

Quale sarà, quindi, il futuro di Osservatorio Sant’Anna?
Dopodomani (17 novembre 2025, data dell’intervento di Osservatorio Sant’Anna nello Speakers’ corner della Biennale Architettura 2025, n.d.r.) ci sarà un incontro per capire quale futuro e quale pianificazione mettere in atto. Se fosse possibile estendere la concessione, noi avremmo bisogno di altri sei/dodici mesi per finalizzare un piano nel dettaglio: un piano di rigenerazione finanziaria e architettonica che non è possibile attuare in solitudine. Questo piano dovrebbe essere un lavoro congiunto con l’Agenzia del Demanio, per poter studiare la statica dell’immobile e calcolare il costo totale dell’intervento. Dalla prossima settimana, dopo la chiusura della Biennale Architettura 2025, si aprirà un periodo di contrattazione.
È un progetto utopico questo, il progetto più utopico che sto realizzando. È utopico perché potrebbe collassare domani mattina. Un’amica l’altra sera mi ha detto una cosa molto bella: “A me il progetto piace perché è anacronistico, perché lavora su un luogo di cui quasi la nostra generazione non necessita più. State investendo sul fallimento, perché è un progetto ad altissimo tasso di fallimento”. Quello che per me è interessante è il rischio di investire non su qualcosa di sicuro, ma su un possibilissimo fallimento. Questo penso potrebbe aprire a una pratica curatoriale d’immaginazione.
Tu saresti soddisfatto anche se questo progetto dovesse fallire?
Sì, sono già soddisfatto perché si è ampliato ancora di più un nucleo di cittadinanza che dovrà essere un interlocutore essenziale e privilegiato, sia per il Demanio che per qualsiasi persona vorrà fare un investimento anche con finalità speculativa sull’immobile. Non è un immobile abbandonato di cui nessuno si prende cura: oggi è sempre di più riscoperto, conosciuto, è un immobile in cui le persone si fermano e chiedono cosa stai facendo. Così si è creata una discussione, una comunità politica – politica nell’accezione di prendersi cura del bene della polis – che dovrà essere presa in considerazione in qualsiasi tipologia di trattativa. Da un punto di vista curatoriale sono soddisfatto perché credo in questa progettazione culturale, credo molto nelle reti di economia relazionali e nella possibilità di fare molto con poco capitale di investimento, ma con altro capitale di valore umano simbolico. La mia felicità principale è quella che ti ho descritto: costruire una voce che debba essere presa in considerazione. Una voce da ascoltare, che è cresciuta in questo periodo, limita la possibilità di fallimento.
Quale percentuale daresti a questo fallimento?
A oggi uno degli indici che aumentano il tasso di variabilità è la ricerca del capitale per il restauro. Internamente la programmazione a lungo periodo è finanziariamente sostenibile, ma rimane una problematica. Noi chiediamo allo Stato di prendersi carico del restauro – quindi del contenitore –, mentre saremo noi a prenderci cura, anche a lungo termine, del contenuto. Lo Stato dovrebbe avviare un restauro che sia simbolico, quindi non funzionale a un albergo ma a un centro di comunità e distribuzione di servizi. Da parte mia c’è la finalità di mettere con le spalle al muro le istituzioni: “Volete dare un simbolo e un cambio di rotta a Venezia, a come viene vista Venezia, a come è sfruttata e consumata Venezia? Ora c’è pubblicamente questa possibilità grazie a degli interlocutori. Soprattutto in uno spazio come Venezia che, per ragioni fisiche e spaziali, non può espandersi. Ogni metro quadrato è importante e qui ce ne sono molti. Lo volete fare o no?”
I PROGETTI DI OSSERVATORIO SANT’ANNA E LA PRATICA CONVIVIALE
La convivialità è l’elemento portante dei vostri progetti, ne menziono qui due in particolare che utilizzano il cibo come espediente per arricchire e unire la comunità: Laguna nel pozzo, con la partecipazione dell’artista Andrea d’Amore, e Acquolina, polpettario di quartiere. Due progetti differenti tra loro, il primo un pranzo performativo, il secondo una pubblicazione. Il mio punto di vista è da spettatrice e fruitrice in entrambi i casi, qual è il tuo da organizzatore e curatore?
L’elemento della convivialità del cibo è stato fin dall’inizio il motivo. Abbiamo pensato al cibo e al suo potenziale di convivialità, di costruzione di comunità e anche di italianità e da questo intento nascono due differenti progetti. Quello più a lungo termine è il polpettario di quartiere, al quale il collettivo artistico Malomodo studio – residente nel sestiere, davanti alla chiesa – ha chiesto spontaneamente di unirsi, proponendo di utilizzare gli spazi per sviluppare un progetto. Abbiamo recuperato un budget minimo per produrre sia la pubblicazione sia il progetto e abbiamo messo a disposizione gli spazi. Aveva totalmente senso: dei vicini di casa con delle belle idee ma senza capitale e luogo. Questo progetto è basato sulla collaborazione: Malomodo ha prima raccolto una serie di ricette, analizzando come le persone vivono all’interno delle case popolari di Sant’Anna. Attorno al complesso cucinano polpette di carne, verdure, pesce, e tanto altro e così è nata l’idea di un polpettario di comunità. Successivamente hanno chiesto – e secondo me questo è l’elemento vincente del progetto – a ognuna delle persone coinvolte di cucinare le proprie polpette e di non mangiarle nella solitudine della casa, ma di mangiarle collettivamente in occasione di una cena.
E a proposito di Laguna nel pozzo?
Il progetto più a breve termine è stato Laguna nel pozzo, con Andrea d’Amore. Andrea d’Amore è un artista che lavora proprio sul convivio da ormai oltre vent’anni. Ho collaborato molte volte con Andrea ed è un artista che stimo molto e che non appartiene minimamente al mondo dell’arte tradizionalmente riconosciuto. Lavora più sui processi che sui prodotti, ma soprattutto Andrea è una persona che riesce a cogliere le energie dei luoghi all’interno dei quali opera attraverso la pratica dell’ascolto. Da lì ha iniziato a pensare che uno degli elementi che più si consuma a Venezia è il tramezzino, così ha iniziato a costruire i tramezzini attraverso il sistema ingegneristico delle palafitte veneziane. Dei tramezzini a più piani, e poi in maniera ironica ha lanciato una competizione che vorremmo fare ora ogni anno: il Tramezzino più lungo d’Italia. Il 14 settembre scorso c’è stato un pranzo nel quale una parte del momento conviviale era organizzata dall’artista, ma un’altra parte doveva essere assemblata e costruita dalla cittadinanza. Essendo Sant’Anna privo di una cucina, il comitato di San Pietro – organizzatore della sagra di San Pietro di Castello – ha messo a disposizione gratuitamente cucine e strumenti. Dopo aver preparato il pranzo – nelle cucine di San Pietro – abbiamo trasportato tutto nel chiostro di Sant’Anna, organizzando un evento costituito, da una parte, dalla distribuzione del cibo – servito –, mentre dall’altra da un intento differente. L’obiettivo era quello di far confluire delle persone e di farle lavorare assieme per ottenere un prodotto culinario da consumare in condivisione. Così abbiamo visto i partecipanti mettersi in prima persona in uno sforzo che, seppur minimo e simbolico, mostrava un partecipare, un “prendere parte”.

Quale progetto, secondo te, è stato finora il più “rappresentativo” per Osservatorio Sant’Anna? O comunque a quale sei più affezionato?
Non c’è un evento principale rispetto agli altri, anche dal punto di vista di investimento del budget. Uno dei due eventi a cui sono più legato proprio per questa idea di “costruire insieme qualcosa” è Laboratori di autocostruzione con Officina Marghera. Riutilizzando materiali recuperati dai rifiuti della Biennale, abbiamo allestito un tavolo centrale – un modello che può essere smembrato e utilizzato come un parlamento – e il tavolo circolare utilizzato all’interno dell’infermeria. Sono affezionato a questo progetto perché è stata una pratica che ha coinvolto molte persone. L’altro è Laguna nel pozzo.
La pratica del convivio costituisce un po’ un ritorno a quel senso di comunità folkloristico e rituale di “ritrovarsi” attorno a una tavola o uno spazio, ognuno “portando qualcosa”. Quanto credi che questa forma d’arte possa trovare spazio nel mondo dell’arte?
Osservatorio Sant’Anna si sviluppa fuori dai confini classisti basati sulla circolazione del capitale finanziario o su un sistema di riconoscimento istituzionale, di finanziarizzazione delle opere attraverso la galleria e compravendita, collezionismo o speculazione. Noi in questo progetto siamo fuori da questo mondo dell’arte e siamo anche piacevolmente entusiasti di starne fuori. Da una parte bisogna definire che cosa significhi “il mondo dell’arte”; dall’altra parte penso sia necessario, riprendendo le parole di Alighiero Boetti, “mettere al mondo il mondo”. Cosa significa? Generare un nuovo mondo è per me la pratica curatoriale e in questo caso è una negoziazione continuativa della realtà. Non con l’idea di doverla totalmente cambiare attraverso dei sistemi differenti e/o performativamente accettarla, bensì di negoziare. C’era una realtà prima che arrivassimo e noi stiamo negoziando quotidianamente, attraverso le attività, le presenze, le persone, questa realtà per mettere al mondo il mondo.
Quanto è autentica questa negoziazione?
Io sento che l’autenticità è totale. Come scritto sul manifesto, si tratta di un atto d’amore nei confronti di Venezia e di portare alla luce un discorso legato all’eccedenza. Per me quell’immobile è qualcosa che eccede, al di là di qualsiasi logica accettata dal sistema odierno, e un progetto del genere è un’eccedenza rispetto a un modo di pensare. È chiaro che il progetto per quella chiesa è ricettività turistica o spazio espositivo connesso a grandi mostre. Noi stiamo cercando di far diventare il complesso uno spazio per l’eccedenza anche delle persone, spesso espulse da un contesto politico e di dialogo. Quello di Sant’Anna è un contesto che presenta delle problematicità molto ampie ‒l’infermeria è stata utilizzata per trent’anni per il consumo di eroina e altre sostanze. È un contesto storicamente difficile, dove sono state allocate ed espulse determinate tipologie di persone. L’obiettivo è quindi far emergere questa mostruosità ed eccedenza all’interno di un discorso, creando al tempo stesso un’eccedenza di pensiero. La nostra direttiva è quella di un teatro parlamento che abbia un impatto sociale e politico, quindi costruire un dialogo e una forma complessa di polifonia di voci.
L’APPROCCIO CURATORIALE ALLA BASE DI OSSERVATORIO SANT’ANNA
Come definiresti il tuo approccio curatoriale e quello di Osservatorio Sant’Anna? Ti rivedi in questo progetto?
Ho lavorato molto, dal punto di vista curatoriale, in queste zone di frizioni liminali tra dentro e fuori rispetto alle istituzioni. Sono le zone che più mi interessano, perché sono zone di contrattazione e trovo questo processo molto coerente all’interno della mia storia personale. Io a diciott’anni sono venuto a Venezia, ho studiato tre anni a Ca’ Foscari e ho fatto parte di S.a.L.E. DOCKS – un collettivo che occupa uno dei Magazzini del Sale, uno spazio all’interno del quale, insieme a un’assemblea di persone, all’epoca si è discusso di abitabilità e del problema abitativo a Venezia, di precarizzazione del mondo del lavoro nel mondo dell’arte, di speculazione e turistificazione, di ecologia e ambiente. Da un certo punto di vista, con Osservatorio Sant’Anna è come se fossi tornato all’inizio di un mio percorso di pensiero e di studi. Allo stesso tempo ci sono ritornato all’interno di questo ambiente totalmente cambiato: nel mentre ho lavorato a una grande mostra, a un grande progetto come quello della Quadriennale d’arte del 2020; ho coordinato le mostre e i cataloghi al Macro (Museo d’Arte Contemporanea Roma). Penso che entrambi siano stati dei progetti che hanno portato delle prospettive e dei punti di vista nel panorama, ad esempio dell’arte italiana. Trovo che uno dei motivi centrali per i quali sono stato coinvolto è che potevo essere un valore aggiunto, una prospettiva differente antistituzionale, pur all’interno di un’istituzione. Quando trovo questi nuclei di pensiero, di resistenza all’interno delle istituzioni che cercano di ampliare la negoziazione del linguaggio, mi butto a capofitto in queste tipologie di progetto. Per me c’è un filo e Osservatorio Sant’Anna è stato un modo di ripensarsi e azzerarsi, di non seguire per forza quel flusso, di ricominciare e sintetizzare tutto quello che ho fatto fino a ora e di chiedermi come posso rimasticarlo. È un lavoro molto intestino: si dice che l’intestino è un secondo cervello. Ho masticato, ora come rigurgito?
Rebecca Canavesi







