La prima personale in Italia di Jack O’Brien – andata in scena negli spazi di Ordet a Milano – ha condotto il pubblico fra paesaggi industrializzati, rovine e segni architettonici di un rinascimento passato, nel solco di potenzialità sospese e della fisicità dei materiali.
Negli spazi di Ordet a Milano, il 20 novembre 2025, si è conclusa A Formality, la prima personale italiana del londinese Jack O’Brien (1993), il cui lavoro si basa su una consistente sovrascrittura di significati. Vari materiali, spesso provenienti dalla società del consumo, vengono assemblati, decontestualizzandoli, per creare nuove narrazioni. Pellicole termoretraibili, resine epossidiche, tessuti, fascette e plastica compongono le installazioni di grande formato con cui O’Brien gioca. Queste amplificano la monumentalità dei gesti di assemblaggio, messi in atto durante e dopo la creazione. Ordet diviene così il palcoscenico per un racconto nato dal desiderio di sperimentare.

A FORMALITY: LA CURATELA DELLA MOSTRA
Il progetto curatoriale si presenta come uno strumento non finito, fatto di ingranaggi e rulli che rimandano a una fabbrica in divenire, sospesa nel tempo. All’ingresso si percepisce un odore pungente che ricorda colle e plastiche di macchinari. Accattivante e a tratti fastidioso, l’odore innesca la curiosità. I due nastri trasportatori neri incrociati occupano diagonalmente gli spazi, creando una narrazione costellata di oggetti bianchi come fossero piccole statue poste su plinti. Il meccanismo però è rotto, non avanzano e il processo si blocca. Il bianco – delle pareti e ripreso dalle sculture in mostra – ricorda una sacralità passata che viene rafforzata dall’utilizzo di panneggi imbevuti di gesso e cemento. L’oggetto è statico ma sempre in divenire. Il nero ci riporta a un presente performativo, a una società dei consumi che punta alla produttività e al continuo movimento. La trasformazione dell’oggetto industriale tramuta l’esperienza di visita in un momento di contemplazione e di riflessione, lontano dall’efficienza incessante del presente. Ciò che l’artista crea non è un oggetto finito, si tratta di una manifestazione delle possibilità, un rimando a tempi dal sapore antico, ma senza essere didascalico. Raggiunto il secondo piano, è possibile imbattersi in una composizione di tubi e drappi che ricordano colonne dagli andamenti fluidi e morbidi. La scelta curatoriale di esporre le sculture come fossero parte di una catena di montaggio rafforza la poetica dell’artista. La riconfigurazione dell’oggetto è sempre più pressante. La mostra, in modo implicito, fa emergere questi aspetti, rendendoci partecipi di un meccanismo infinito del quale ci ritroviamo a far parte inconsapevolmente.

ORDET E LENZ PRESS
Fondato nel 2019 da Edoardo Bonaspetti e Stefano Cernuschi, Ordet non è solo uno spazio espositivo, ma un laboratorio sperimentale e centro culturale. In seguito al trasferimento – avvenuto a febbraio 2025 –, le mostre prendono forma in un open space di 250 metri quadrati. L’ex autorimessa, dopo una ristrutturazione curata da Ballabio & Bava, è pronto ad accogliere nuove metodologie allestitive. Le sue caratteristiche da white cube lo rendono un terreno perfetto per sondare realtà inedite. Situato in Via Filippino Lippi 4, Ordet comunica con il primo bookshop della casa editrice Lenz Press – nata su iniziativa di Bonaspetti ‒, che raccoglie cataloghi, monografie, libri teorici e d’artista su arte contemporanea, fotografia, architettura e design. Si crea così un connubio tra due realtà che seguono un progetto in divenire dal 2019, improntato alla sperimentazione e alla contemporaneità.
Maddalena Domenghini


















