In questa conversazione Charlotte Laubard indaga a fondo il suo interesse per l’autodidattismo e la critica al mito dell’artista-genio, proponendo una visione dell’arte come pratica collettiva e socialmente situata. Laubard evidenzia il potenziale trasformativo dell’arte e riconosce nella curatela un ruolo fondamentale di co-creazione e facilitazione.
Classe 1974, Charlotte Laubard è stata direttrice (2006-2023) del CAPC ‒ Musée d’art contemporain di Bordeaux e attualmente è docente di Storia e Teoria dell’arte presso l’HEAD di Ginevra, dove ha ricoperto anche il ruolo di direttrice del Dipartimento di Arti Visive (2017-2023). Ha lavorato a New York, Torino e Kiev in istituzioni internazionali dedicate alla creazione artistica contemporanea e curato numerose mostre, tra cui quella del Padiglione svizzero alla Biennale di Venezia del 2019 con le artiste Pauline Boudry e Renate Lorenz, e la collettiva L’énigme autodidacte al MAMC+ di Saint-Etienne nel 2021-2022. È una storica dell’arte e curatrice indipendente, nonché cofondatrice della Société suisse des Nouveaux commanditaires. Questa intervista è stata l’occasione per approfondire alcuni dei temi di ricerca che caratterizzano la sua carriera accademica e curatoriale.
AUTODIDATTISMO E CURATELA
Nel tuo lavoro hai esplorato l’énigme autodidacte in relazione agli artisti, mettendo in discussione i criteri di legittimità dell’arte. Molti grandi pionieri della curatela ‒ da Harald Szeemann a Pontus Hultén ‒ non seguirono un percorso accademico formalizzato, perché la curatela come disciplina non esisteva ancora. Oggi, invece, la figura del curatore si sta istituzionalizzando, con il rischio di standardizzazione. In questo contesto, quale spazio rimane per una dimensione autodidatta e innovativa della curatela?
Il rischio per qualsiasi curatore oggi è quello di pensare per parole chiave, di affrontare la complessità della realtà attraverso una lettura categorica che è riduttiva. Il principale difetto di gran parte della pratica artistica e curatoriale odierna può essere riassunto, a mio avviso, in una sola parola: aboutness. Per evitare questa trappola, incoraggio spesso i miei studenti d’arte ad avvicinarsi alla realtà attraverso un dettaglio che sfugge all’attenzione, che resiste alla comprensione e che svela tutta una serie di domande, a volte di natura abissale.
Le tue ricerche vertono sulla dimensione digitale, non solo come novità tecnologica, ma come fattore strutturale del cambiamento culturale. In questo scenario, pensi che esista il rischio che gli artisti autodidatti, invece di inventare percorsi alternativi, si affidino sempre più a modelli e archivi generati dall’IA e da algoritmi auto-apprendenti?
C’è una cosa che ho imparato studiando le pratiche autodidatte e quelle di disapprendimento, così diffuse nell’arte moderna e contemporanea, e trascorrendo del tempo con gli studenti d’arte: tutto ciò che può facilitare l’apprendimento e l’espressione merita di essere accolto. La storia lo dimostra continuamente: ogni volta che una tecnologia è stata progettata per essere utilizzata senza quasi alcuna conoscenza tecnica, essa consente a un pubblico più ampio di appropriarsene e di esprimersi. Naturalmente, questo genera anche una grande quantità di normatività. Coloro che riescono a distinguersi tendono a utilizzare tali strumenti in modi devianti e non conformi, consapevolmente o meno, il che spesso si rivela molto più favorevole agli incidenti creativi e alle scoperte inaspettate.

AGENCY DELL’ARTE E PRATICHE COLLETTIVE SECONDO CHARLOTTE LAUBARD
Lei invita ad allontanarsi dall’idea dell’artista-genio isolato, per recuperare invece una pratica collettiva nella produzione dell’opera e un ruolo non soltanto contemplativo ma operativo dell’arte. Come questa prospettiva potrebbe ridefinire non solo i criteri di legittimazione artistica, ma anche la funzione stessa delle istituzioni che custodiscono e mostrano le opere?
In passato, e ancora oggi, è stata attribuita troppa importanza alle intenzioni dell’artista. Questo peso comporta sia un’enorme responsabilità che una certa fragilità: l’artista deve costantemente soddisfare l’imperativo di dire qualcosa di originale, reinventato all’infinito, gestendo al contempo l’ansia che nasce quando il suo lavoro non riesce a comunicare, quando le sue intenzioni non vengono comprese. Eppure la realtà è che chiunque viva un’opera d’arte proietta su di essa le proprie intenzioni, intenzioni che possono divergere notevolmente. L’esistenza stessa dell’opera e la legittimità sociale che essa acquisisce gradualmente dipendono da questo processo di co-costruzione e co-creazione. Avremmo molto da guadagnare abbandonando il mito del genio e il nostro attaccamento alla paternità dell’opera, per concentrarci invece sugli effetti e sulle esperienze che le opere d’arte producono.
Nella lettera al visitatore scritta in occasione di Moving Backwards, la mostra del Padiglione svizzero da lei curato alla Biennale di Venezia del 2019, invitava a superare la lettura modernista e occidentale dell’arte come avanzamento formale o concettuale, per restituirle un ruolo attivo nella società. Quale tipo di agency possiamo riconoscere all’arte oggi, in una società frammentata e globalizzata?
L’arte non solo accresce la sensibilità, rafforza il giudizio critico e amplia il campo della coscienza, ma può anche proteggere, guarire, garantire l’accesso a entità invisibili, influenzare il corso dell’esistenza, risolvere situazioni, affermare valori condivisi, commemorare, unire le persone e celebrare… Mi sembra che, abbracciando tutti questi ruoli dell’arte, possiamo ripristinare la legittimità sociale delle pratiche creative e rendere il mondo dell’arte davvero più inclusivo. Ciò significa, in termini concreti, che la contemplazione estetica è solo uno dei molti modi possibili di relazionarsi con la creazione.

ARTE E CO-CREAZIONE
È cofondatrice e mediatrice della Société suisse des Nouveaux commanditaires, un’iniziativa che permette a chiunque ‒ indipendentemente da età, origine o professione ‒ di collaborare con un artista o un mediatore per commissionare un’opera. In base alla sua esperienza, quali sono oggi i temi che più mobilitano i cittadini?
L’iniziativa Nouveaux commanditaires (“Nuovi mecenati”) consente a gruppi di cittadini di commissionare a un artista un’opera che risponda a una questione collettiva, ad esempio rafforzare i legami sociali, dare visibilità a una causa, rivalutare un luogo o condividere un ricordo. I Nouveaux commanditaires rendono la creazione artistica uno strumento di azione democratica, accessibile a tutti, producendo opere che nascono in risposta a bisogni reali e preoccupazioni sociali significative per le comunità in cui sono radicate. Ciò che continua a stupirmi di più di questo approccio è come i committenti si aprano gradualmente alle forme d’arte più contemporanee e radicali, anche se spesso partono da nozioni piuttosto banali o semplicistiche di ciò che è l’arte. La spiegazione è, in realtà, abbastanza semplice: l’opera risponde al loro bisogno. Essa offre loro un “salto immaginario” che spesso aiuta a risolvere o trascendere ‒ a livello simbolico ‒ situazioni che possono essere complesse.
Ha spesso insistito sul fatto che la creazione è per natura collettiva, e che l’opera vive nelle relazioni con i suoi pubblici. In questo senso, la curatela non è più solo mediazione, ma si trasforma in co-creazione. Come immagina una pratica curatoriale capace di dare forma a queste energie collettive senza ridursi a semplice facilitazione sociale?
Penso che sia perfettamente legittimo essere un facilitatore. Con i Nouveaux commanditaires, il mio ruolo è quello di aiutare le persone e gli artisti a lavorare insieme, nel reciproco rispetto delle rispettive competenze. La mia ambizione in questo contesto è quella di produrre opere che siano legittime sia dal punto di vista sociale che artistico. In definitiva, si tratta di trasformare i ruoli di tutti gli attori del mondo dell’arte: l’artista, il curatore e coloro che vivono l’arte. In breve, si tratta di cambiare il modo stesso in cui la storia dell’arte viene concepita e scritta. Un’ambizione piuttosto grande, che sicuramente restituisce un senso di dignità al ruolo di facilitatore, non è vero?

Se la curatela ha un compito politico, non solo estetico, quale pensa sia oggi la sua funzione più urgente: creare senso comune, favorire il dissenso o immaginare nuove forme di convivenza?
Il buon senso e il dissenso sono entrambi in gioco nella nostra epoca attuale, profondamente segnata dal populismo. In un momento in cui l’antagonismo è così pervasivo, credo che dovremmo pensare all’arte e alla curatela come pratiche di agonismo, per riprendere un concetto della filosofa Chantal Mouffe. Le pratiche artistiche più efficaci sono quelle in grado di accogliere percezioni e interpretazioni diverse. La loro polisemia, la loro resistenza al significato unilaterale è la loro vera forza.
Alice Longo
Intervista tradotta dall’inglese con l’utilizzo dell’IA





