Intervista a Marta Magini: pratiche del corpo tra immobilità e movimento

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In questa conversazione, l’artista e performer Marta Magini esplora l’oscillazione come chiave poetica e fisica della sua ricerca. Attraverso un approccio interdisciplinare che intreccia design, arti visive e performative, indaga le soglie tra movimento e immobilità, rendendo visibile ciò che solitamente resta ai margini dello sguardo. 

Quando il nostro corpo non riesce a trovare un equilibrio stabile, compie un movimento quasi impercettibile, l’oscillazione. Non è necessariamente un segnale di debolezza o smarrimento ed è proprio la sua ambivalenza a renderlo affascinante: può indicare l’incertezza che precede una scelta, ma anche il ritorno a una quiete dopo uno sforzo. 
Ricorda la metafora dell’albero di fico di Sylvia Plath: Esther Greenwood è lì, seduta tra due rami, e ogni frutto rappresenta una vita possibile. Ma rimanere a lungo sospesi tra le opzioni può trasformarsi in paralisi. Oscillare tra due alternative che sembrano ugualmente desiderabili, ma di cui solo una riesce davvero a farci vibrare nel profondo. “Mi muovo o non mi muovo? Lo faccio o non lo faccio?”. Ma l’oscillazione è anche ciò che accade dopo: quando l’onda si placa, quando si è presa una direzione e si torna lentamente in equilibrio. Nella sua purezza matematica, l’oscillazione ha la forma di una curva sinusoidale che non si spezza mai: rallenta, accelera e continua. Forse l’oscillazione non è un dubbio da superare, ma un movimento necessario. Un campo da attraversare. E forse l’equilibrio non è un punto fisso, ma il momento in cui si sceglie di assecondare il moto seguendo il suo ritmo. 
Questa idea è al centro della ricerca di Marta Magini (Senigallia, 1995), artista e performer residente a Venezia. Dopo studi in Design, Arti Visive e un master in Arti performative, sviluppa una pratica incentrata sul corpo e sul movimento e sulla loro relazione tra attività e inattività. Abbiamo conosciuto Marta Magini in occasione di uno studio visit durante il suo periodo di residenza presso la Fondazione Bevilacqua La Masa a Palazzo Carminati. La prima cosa a colpirci è stato l’allestimento della sua stanza: i fogli appesi al muro, le lastre metalliche sparse sul tavolo insieme ai libri, la scrivania illuminata dal sole timido di un marzo veneziano. Dopo la fatica delle scale all’ingresso, entrare nel suo atelier è stato come trattenere il respiro per non turbare un’atmosfera fragile. Abbiamo sentito il desiderio di capire di più, di chiederle il perché di quelle scelte. 

INTERVISTA A MARTA MAGINI 

Il tuo percorso attraversa design, arti visive e performative. Come questi passaggi si sono influenzati nel tempo? 
Il mio percorso è piuttosto articolato, e apparentemente quasi caotico. In realtà, ogni passaggio, soprattutto in ambito accademico, è stato guidato da un innamoramento: per un contesto, un approccio, una modalità di fare pratica o di studiare. È come se avessi sempre di più affinato la tensione verso ciò che mi interessava. Per farlo mi ha aiutata prima di tutto una certa lentezza che appartiene alla mia attitudine (e a cui voglio bene), ma mi sono serviti anche molti spunti insoliti, indizi incisivi e intuizioni che hanno prodotto deviazioni. A posteriori, riconosco come questi passaggi, dal design alle arti visive, fino alle arti performative, non siano mai stati delle rotture, piuttosto degli slittamenti, delle evoluzioni e delle integrazioni che si sono innescate l’una nell’altra. Aver attraversato contesti e linguaggi così diversi ha contribuito alla maturazione di uno sguardo che tende a stare tra le discipline e a cercare connessioni in territori anche poco familiari. 

Cosa ti attrae del muoverti tra i linguaggi, senza aderire a uno solo? 
Mi mette a disagio l’idea di fare affidamento su una disciplina in senso stretto, mi interessa molto di più la possibilità di entrare dal lato, uscire dal retro, affiancare i saperi, smarginare in modo anche indisciplinato. Coltivo questa libertà espressiva con costanza ed esercizio, e mi rendo conto di quanto sia preziosa innanzitutto per mantenere una vitalità nella mia ricerca, ma anche nel lavoro con altre artiste. Nei casi di collaborazioni, e in parte anche in quelli di prestazioni per artisti, è l’incontro stesso a richiedere apertura: verso l’altro, i suoi strumenti, le sue sensibilità. Questa relazione mi offre lo spazio per esplorare ciò che ancora non conosco, per dedicarmi a ciò che da sola non mi concederei nemmeno di immaginare. 

Guardando indietro, quali concetti hanno accompagnato l’inizio della tua ricerca? 
Durante gli studi in Design ho lavorato molto sui concetti di non-funzionalità, malfunzionamento, opacità e ripetizione. Ho iniziato a comprendere l’importanza che i corpi rivestono nel mondo della progettazione. Elementi forse fuori asse in quel contesto accademico, ma che hanno iniziato a nutrire il mio orizzonte. Da lì, una tesi in Estetica sulla sfocatura mi ha condotta allo Iuav per studiare teoria e storia dell’arte. Parallelamente, ho continuato la mia formazione in danza e pratiche performative. I due percorsi, col tempo, hanno iniziato a informarsi e contaminarsi reciprocamente. 

I TEMI DELLA RICERCA DI MARTA MAGINI 

Quando hai iniziato a lavorare sull’idea di oscillazione? 
Circa tre anni fa, anche se questo interesse si è formato molto tempo prima. Un giorno, rispondendo a un messaggio, ho realizzato che da settimane alla domanda “come stai?” rispondevo “come un’altalena”. Quella ricorrenza, partendo da un dato personale, mi ha permesso di alimentare un pensiero più ampio. Ha preso forma un modo specifico di osservare stati emotivi (non solo miei), ma soprattutto i corpi, il loro movimento e la relazione tra attività e inattività. Quella formula si è rivelata sostanzialmente un indizio. Da allora, l’oscillazione è diventata una chiave di lettura trasversale nella mia ricerca: un modo di stare al mondo, una condizione del corpo e della mente, una modalità di attraversare il tempo. 

Cosa ti affascina di questa condizione oscillante? 
Mi appassiona l’ambiguità di fondo di cui ogni espressione del dondolio è portatrice o generatrice: nel dondolio si concentrano e convivono la pausa, la sospensione, il rilassamento, il piacere, il godimento, la ricreazione, la vita, ma anche l’attesa, la noia, la stanchezza, il disturbo, l’ossessione, l’esaurimento, la morte. Dondola il bambino fra le braccia dell’adulto, ma dondola anche l’adulto che culla il bambino e poi dondola l’impiccato. C’è dolcezza e tuttavia ossessività; ossessività e tuttavia dolcezza. L’oscillazione è movimento e stasi insieme. Un moto incipiente, una soglia: qualcosa che potrebbe svilupparsi o arrestarsi. Un’attività che può apparire come inattività, e viceversa. Mi interessa lavorare in queste fessure, dove il movimento è minimo, ma denso. 

In quale modo esplori l’improduttività come valore? 
L’oscillazione è anche un modo per esplorare l’improduttività come valore. Lavoro su gesti che non producono effetti evidenti, che si attardano nel tempo. Mi attraggono i movimenti che incidono di nascosto, i gesti che sussurrano. Lavoro sulla soglia tra movimento e immobilità, dove non è chiaro se il corpo stia per muoversi, si stia fermando o sia semplicemente in attesa. È lì che si generano domande importanti: da dove arriva l’impulso che muove? Quand’è che un gesto non serve a niente? Come agisce il movimento sul tempo? C’è qualcosa per me di vitale in questa idea di improduttività: mi permette di stare nel tempo in modo diverso, di rallentarlo o di piegarlo. È un tempo che luccica, ma senza spettacolo. 

Come concepisci la ripetizione nella tua pratica? 
La ripetizione ha sempre avuto un ruolo fondamentale e un grande fascino. Non solo come strumento formale, ma come metodo. Ripetere significa attraversare più volte, rovesciare, girare, risalire. Solo così posso arrivare alla sorpresa, anche di ciò che già conosco. 

I PROGETTI DI MARTA MAGINI

Il tuo lavoro Luccica segreto è stato premiato alla 107ma Collettiva della Bevilacqua La Masa. Di cosa si tratta? 
Luccica segreto (movimento II in sei parti) esplora le dinamiche di corpi e materie in oscillazione: un’indagine sul movimento inteso come tensione tra stabilità e instabilità, presenza e scomparsa. L’opera è composta da sei incisioni su zinco che scompongono un gesto semplice: un corpo in posizione eretta oscilla, come un metronomo. L’istante di equilibrio perfetto non compare mai. Il lavoro si concentra sugli scarti minimi e sull’instabilità. Anche lo spettatore deve muoversi per osservare: lo sguardo oscilla, entra in dialogo con il corpo rappresentato. Una linea sottile sotto i piedi della figura suggerisce la gravità, concetto centrale nella mia ricerca. 

In quali nuove direzioni si sta muovendo la tua pratica? 
In questo momento sto approfondendo, più del previsto, il disegno. È una pratica che sto esplorando con un approccio molto analitico ma anche estremamente sintetico: disegno ricalcando, copiando, fotocopiando, mai a mano libera. Questo metodo mi permette di osservare i dettagli del movimento e le sue implicazioni più sensibili. Sto anche lavorando a un nuovo progetto performativo che approfondisce ciò che ho iniziato con Swinging is like saying no no no (2023). Continua inoltre la collaborazione con Nicola Di Croce. Nella collaborazione con Nicola esco sempre dalla mia ricerca: si genera un terzo spazio, che non appartiene a nessuna delle due ma in cui si lavora molto bene. Abbiamo da poco avviato un nuovo lavoro dal titolo I cieli non sono umani, che si ispira al libro Una solitudine troppo rumorosa di Bohumil Hrabal. 

Che ruolo immagini per la curatela nel sostenere una ricerca come la tua? 
Per me la curatela ha senso quando nasce da un ascolto profondo. Nella mia esperienza, ho incontrato curatori e curatrici le cui sensibilità hanno avuto un ruolo decisivo: hanno contribuito concretamente ad aiutarmi a comprendere, chiarire, a volte persino a sbloccare alcuni passaggi del mio lavoro. Il mio lavoro ha bisogno di tempo, prossimità, silenzio, e tanto vuoto. Sono condizioni fragili, ma fondamentali. Credo che proprio qui si apra lo spazio più potente per la curatela: farsi presenza discreta, alleata, capace di custodire ciò che ancora non si mostra. 

Linda Rubino 

https://www.instagram.com/marta.magini/

  • Portrait of Marta Magini. Photo by Giacomo Bianco.
  • Performance view of Swinging is like saying no no no (2023), by and with Marta Magini, with live music by Nicola Di Croce. Photo by Giacomo Bianco.
  • Performance view of Swinging is like saying no no no (2023), by and with Marta Magini, with live music by Nicola Di Croce. Photo by Giacomo Bianco.
  • View of Luccica segreto, luccica segreto, luccica (2024), a flip book trilogy by Marta Magini, with illustrations and text by the artist and graphic design by Giorgia Florenzano. Photo by Michela Del Longo.
  • View of Luccica segreto, luccica segreto, luccica (2024), a flip book trilogy by Marta Magini, with illustrations and text by the artist and graphic design by Giorgia Florenzano. Photo by Michela Del Longo.
  • Still from Swung (Activation 1: Centro Culturale Altinate San Gaetano) (2024), a 30-minute video installation by Marta Magini with sound by Nicola Di Croce. Courtesy of the artist
  • Installation view of Luccica segreto (It Could Be Calm and Yet It Is a Potential Hell; Movement IV) (2024), HD video in loop, created by Marta Magini with editing by Oleksandra Horobets. Courtesy of the artist
  • Luccica segreto (Movement II in six parts) (2025), a series of six zinc etchings, each measuring 15 × 20 cm. Courtesy of Fondazione Bevilacqua La Masa
  • Luccica segreto (Movement II in six parts) (2025), six zinc etchings by Marta Magini. Courtesy of the artist.